Le circostanze eccezionali e il rischio del tilt del circuito decisionale

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Strani giorni, viviamo strani giorni: nessuno si sarebbe mai neppure immaginato a inizio gennaio, vedendo le immagini dalla Cina, che ci saremmo ritrovati così, in un’emergenza dalle proporzioni indefinite e indefinibili.

Si procede per tentativi. Si cerca di battere tutte le strade che abbiamo, che trovino un minimo di fondamento scientifico, e si cerca di arginare un virus, consapevoli che è davvero difficile fermare il vento con le mani, ma, con una buona strategia ed organizzazione, e con le “mani” di un paese intero, il vento lo si può almeno rallentare e limitare i danni al minimo.

In questo quadro, i più fortunati, sono quelli che passano l’intera giornata a casa sul divano, tra un pc e un buon libro. Poi ci sono i più sfortunati che con questo virus ci combattono ogni giorno e in questa categoria ci sono medici, infermieri e, più in generale, tutto il comparto sanitario, senza dimenticare il contributo fondamentale di tante lavoratici e lavoratori che permettono il funzionamento del nostro paese, che ci permettono di trovare i generi alimentari e tutti quei prodotti fondamentali alla nostra sussistenza.

E il sistema democratico? Beh, quello neanche può permettersi di fermarsi, perché se medici e infermieri sono fondamentali per salvare le vite umane, un Paese senza un Governo e un Parlamento collasserebbe dopo i primi sette giorni di crisi.

È in questo quadro che si apre un dibattito che, soprattutto in un momento del genere, non può che interessare solo e unicamente gli addetti ai lavori e il mondo accademico. Ma questa crisi ha sollevato un tema fondamentale che ha a che fare con i processi decisionali e il metodo di funzionamento della democrazia parlamentare, quantomeno quella italiana, in momenti di grave crisi nazionale. Ci troviamo dinanzi a scelte prese in tutta fretta, seppur ben ponderate e con il supporto di tecnici e scienziati. Ci troviamo con un Governo che ha emanato tutta una serie di atti normativi, tra decreti-legge e decreti ministeriali. La situazione è talmente emergenziale che il Governo ha dovuto chiedere al Parlamento un voto, ex articolo 81 della Costituzione, sullo scostamento del pareggio di bilancio per mettere in campo una manovra finanziaria straordinaria da 25mld di euro.

Ma, al tempo del Covid-19, dove sono vietati assembramenti e dove la distanza di sicurezza tra due persone è di almeno un metro, ci si interroga se il Parlamento è in grado di continuare a funzionare, come i Parlamentari debbano recarsi nelle rispettive assemblee per deliberare provvedimenti che sono indifferibili, come i decreti che sono stati presentati prima dell’inizio della crisi e che scadranno, pena la decadenza, di qui alle prossime settimane. Ci sono già casi di contagiati in Parlamento e membri delle Camere che sono posti in isolamento obbligatorio. Lo scostamento dal pareggio di bilancio è stato votato con l’ingresso sia alla Camera che al Senato di qualche parlamentare in più rispetto al quorum funzionale della metà più uno e approvato con voto all’unanimità, il tutto grazie alla collaborazione delle opposizioni, altrimenti la situazione sarebbe diventata molto complicata.

È in questo marasma che ci si interroga sulla possibilità di dare ai parlamentari l’opportunità di voto a “distanza” grazie alla tecnologia. Cosa sarebbe successo se più della metà dei deputati o dei senatori fosse risultato positivo al Covid 19 prima del voto sul pareggio di bilancio? Cosa succederebbe se da oggi, e fino alla fina della crisi, un numero di contagi, in uno dei due rami del Parlamento, non rendesse possibile la formazione del numero legale o alterasse il rapporto maggioranza-opposizione? Beh, ci sarebbe la paralisi di un paese che in realtà è per metà chiuso e per l’altra metà lotta tra le corsie d’ospedale.

È in una situazione del genere che ci rendiamo conto che, nel nostro Paese, non abbiamo una disciplina sulle emergenze nazionali, che non abbiamo previsto un metodo per permettere che il processo decisionale vada avanti anche se cause di forza maggiore rendono impossibile al Parlamento di riunirsi.

Il voto a distanza, da più parti invocato, sia dal mondo politico che da quello accademico, pare oggi non essere percorribile per come è scritto l’articolo 64 della Costituzione, ovvero che le deliberazioni di ciascuna Camera non sono valide se non è “presente” la maggioranza dei componenti. Qui si sancisce il principio del quorum funzionale delle assemblee, che per deliberare devono registrare la presenza della maggioranza più uno dei loro membri. Questo articolo, fino ad oggi, è stato interpretato in maniera restrittiva, ovvero ritenendo che fosse necessaria la presenza fisica dei membri. Ancora, in questi giorni, ha ribadito il presidente della Camera: “Un elemento fondante del sistema parlamentare è la partecipazione degli eletti ai dibattiti e alle votazioni”.

In realtà, in questa affermazione il Presidente della Camera non tiene conto che questo non è un principio generalmente riconosciuto e dunque inderogabile dei consessi parlamentari. Ad esempio, nel panorama comparatistico, abbiamo l’esempio, oramai inflazionato, del Congresso dei Deputati spagnolo. Infatti, in Spagna “nei casi di gravidanza, maternità, paternità o grave malattia” è possibile autorizzare il voto a distanza: è il caso che si è verificato lo scorso luglio, quando la portavoce di Unidas Podemos alla Camera ha votato a distanza l’investitura, poi fallita, del Governo Sanchez.

Il voto a distanza, dunque, pare una via percorribile che può metterci al riparo da una paralisi dei processi decisionali che potrebbe verificarsi da un momento all’altro.

Ma chi scrive è convinto che serva una riforma organica a livello costituzionale che non solo inserisca il voto a distanza, ma regoli la materia dell’emergenza, ovvero che concepisca fattispecie stringenti in cui un Governo possa accedere a una disciplina d’emergenza, con l’inserimento di uno “stato d’emergenza o di allarme” con poteri speciali in mano al Governo per un periodo di tempo limitato e con l’opportunità del voto a distanza per le deliberazioni dei provvedimenti, quelli strettamente legati al momento d’eccezione, e magari prevedere un ventaglio di opzioni, oltre che del voto elettronico, di una parte dei parlamentari, prevedendo, ad esempio, che una commissione creata ad hoc per il periodo emergenziale e con una composizione che rispecchi i rapporti di forza tra i gruppi parlamentari possa rappresentare la voce dei singoli gruppi sui provvedimenti per poi fare votare l’aula sommando tra chi vi si può recare fisicamente e chi può invece solo collegarsi in remoto.

Anche in questa occasione il caso spagnolo può dare spunti di riflessione importanti. Infatti, nel regime costituzionale spagnolo è prevista l’esistenza di una commissione di almeno 21 membri che rappresentano i vari gruppi parlamentari e che si riunisce nei casi in cui le Camere siano state sciolte o non siano in sessione ed esercita, ai sensi dell’articolo 57 del regolamento della Camera, le competenze che derivano dall’articolo 116 della Costituzione, ovvero su stato d’allarme, eccezione o assedio.

Logicamente, il caso spagnolo viene qui citato solo a titolo d’esempio, ma è un punto di partenza su cui iniziare una discussione che all’indomani della crisi che stiamo vivendo è necessaria, perché oggi abbiamo “chiuso” un paese con dei DPCM (fonti secondarie del diritto) che si aggrappano a decreti legge, ma in futuro, sarebbe meglio aver disciplinato una serie di circostanze in cui il circuito decisionale possa andare in convivenza con il principio della rappresentanza e della centralità del Parlamento.

Vittorio Crispino

Ventotto anni, di Torre del Greco. Militante di sinistra, laureato in scienze politiche.