L’abisso di Lampedusa, e il nostro. Il post razzismo nel teatro di Enia

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L’abisso non è solo il fondo nero di un mare che inghiotte e non restituisce. Non solo la voragine che si scava nelle anime perse di chi ha lasciato per sempre pezzi di sé in brandelli di corpi di figli, fratelli, amici. L’abisso è proprio il nostro orizzonte che avanza, facendosi largo tra le nostre paure, ferite, mancanze, promettendoci pace, panacee, protezione.

Ci strizza l’occhio, l’abisso, ogni volta più subdolo. E ci travolge nel suo vortice stolto, più pericoloso del mare cattivo, più cattivo di uno scafista.   

Si intitola L’abisso il nuovo lavoro di Davide Enia, monologo tratto dal suo romanzo Appunti per un naufrago, che ha debuttato a inizio stagione al teatro India di Roma. E benché racconti di uno sbarco, uno dei tanti sbarchi di cui ci informano i media, tira fuori una serie di considerazioni che la nostra cronaca recente, insieme alle pieghe che sta prendendo la politica nazionale e internazionale, non fanno che rafforzare.

L’abisso è il post razzismo che riemerge dopo che lo stesso concetto di razza ha mostrato al mondo la sua infondatezza. Il razzismo in tailleur che pretende un posto sul treno anche se non gli spetta. I rigurgiti omofobi rivendicati senza vergogna. La restaurazione di pregiudizi involuti sbandierati come conquiste.

È questo l’abisso che fa più paura. Non le pulsioni animali al di qua del pensiero, ma la normalizzazione oltre il pensiero. Lo sdoganamento di mostri che credevamo sconfitti. Mostri che non si vergognano di essere mostri. Ecco, l’abisso è lì dove viene meno anche la vergogna. Dove la vergogna diventa arroganza. Dove l’arroganza seduce e trionfa.

“Un imprenditore deve assumere uomini perché le donne restano incinte” . Per esempio. Uno così è appena diventato presidente della repubblica di uno dei più popolosi paesi della terra.

Le donne. È sempre peggio per una donna. E siamo di nuovo a L’abisso di Enia che affonda nel ventre di donne ingravidate da stupri, negli organi sessuali ustionati di bambine strappate alla morte, nei corpi smembrati dai pesci, nella puzza di carne in decomposizione.

È una testimonianza diretta quella di Enia, e si fa racconto mentre si leva da quello “scoglio piatto senza promontori dove il cielo ti precipita addosso”.

A Lampedusa Enia c’è stato e a Lampedusa ha assistito al primo sbarco della sua vita. Ha amici vecchi e nuovi che lo aspettano e che in quella notte di tempesta, mentre la natura urlava e infieriva, hanno scelto di aprire le porte di casa invece di chiudersi dentro. Hanno scelto di uscire e andare in mare a offrire soccorso.

Perché ci sono due istinti nell’essere umano e il loro protegge la specie anche a scapito dell’incolumità personale.

Enia è un autattore sincero, nel senso che mentre porge il racconto, il racconto diventa teatro e tu a quel teatro ci credi. Credi al suo corpo e ai suoi gesti, che sono scolpiti e precisi ma non artificiosi e posticci. E credi al suo accento mentre ti lasci trasportare dal cunto e poco importa se a volte resti impigliato anche tu nell’articolazione che rotola in fretta, volutamente buttata via. Enia possiede quelli che si chiamano tempi perfetti, che gli permettono di scivolare con garbo dal comico al tragico. E di inserire nella storia portante teneri frammenti di vita familiare.

C’è rabbia, tanta, in questo racconto, ma c’è anche speranza, commozione e pietas. La pietas che profuma di mentuccia selvatica di un lampedusano che non ha lasciato senza sepoltura dodici corpi decomposti che puzzavano al sole.

C’è l’abbraccio straziante di un padre che ha ritrovato il suo piccolo figlio. Era su un barcone altro dal suo, affondato davanti ai suoi occhi. Ma i soccorritori lo hanno salvato. C’è il suo pianto che lava e pulisce. Rigenera, forse, come il pianto di chi ricomincia a vivere un attimo dopo avere atteso di morire.

C’è anche il nostro, di pianto, un pianto pudico che non osa sciogliersi, congelato com’è tra commozione e vergogna.

Poi ci è venuto incontro l’abisso. Cattivo e stupido. Ingenuo, anche. Perché non lo sa, l’abisso, che nemmeno lui si salva da solo.

Alessandra Bernocco

Giornalista, laureata in filosofia, ama scrivere e cucinare. Da sempre appassionata di teatro, ha insegnato storia del teatro e collaborato come critico a vari periodici tra cui Europa, L’Unità.tv, Multiversi, Dramma e Oltrecultura. Ha pubblicato Suite Bohémien (Robin) e Bip. Il rumore del tempo sospeso (Dialoghi) Si sfoga sul suo blog, Verba manent.