La scarcerazione di Brusca e una riflessione da fare ventisei anni dopo

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Ad appena qualche giorno dal 29º anniversario della strage di Capaci, Giovanni Brusca – u verru – il porco, come lo chiamano negli ambienti mafiosi, l’uomo che si autoaccusò di aver premuto il telecomando che fece saltare in aria Giovanni Falcone, sua moglie, la giudice Francesca Morvillo, e gli agenti di scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo, l’uomo che fece strangolare e sciogliere nell’acido, dopo due anni di sequestro, il piccolo Giuseppe di Matteo al solo scopo di punirne il padre che aveva iniziato a collaborare con la giustizia accusandolo proprio della strage del 23 maggio, quell’uomo, trascorsi 25 anni di detenzione dal 1996, data nella quale ha iniziato la sua collaborazione con la giustizia, è uscito dal carcere.

Inizia una nuova vita, lui.

Questo prevede il patto, il contratto che ha sottoscritto con le istituzioni: informazioni utili e nomi in cambio di sconti di pena e protezione.

E Brusca, in questi ultimi 25 anni, molte informazioni utili allo Stato le ha date, decine di operazioni di polizia, centinaia di arresti sono scaturiti dai racconti che l’uomo che giurò fedeltà a Totò Riina ha dato agli uomini che, ogni giorno, giurano fedeltà allo Stato.

E’ una notizia dolorosa, certo, eticamente e moralmente insopportabile, un pugno allo stomaco per le famiglie delle vittime e per ogni cittadino onesto.

La legislazione premiale ai pentiti è, però, un male necessario voluto e immaginato per primo proprio da Giovanni Falcone.

il magistrato palermitano per primo, infatti, comprese l’importanza di penetrare la coltre di omertà e silenzio costruita intorno a Cosa Nostra, per primo comprese che dal carcere, dagli associati detenuti si poteva lavorare per disgregare e assalire la fortezza apparentemente invalicabile costruita dalla criminalità organizzata.

Il fenomeno del pentitismo, nell’epoca dello stragismo voluto da Totó Riina, il più sanguinario tra i boss, si rivelò uno strumento efficacissimo.

Insostituibile.

Quello strumento non solo mise in discussione la solidità all’interno dell’associazione, le relazioni tra gli associati, ma consentì alla magistratura e alle forze dell’ordine di conoscere la struttura e l’organizzazione di un fenomeno che molti credevano fosse solo una fantasiosa narrazione locale.

La conoscenza che abbiamo oggi del fenomeno mafioso la dobbiamo anche e soprattutto a quella legge scomoda voluta da Giovanni Falcone.

Il nostro ordinamento prevede, infatti, che chi è condannato all’ergastolo, al cosiddetto fine pena mai, trascorsi 26 anni possa uscire dal carcere per completare, con il reinserimento nella società, il percorso rieducativo della pena che prevede la nostra Costituzione.

Questo sistema premiale è attualmente negato a coloro che hanno subito condanne per reati di associazione a delinquere di stampo mafioso con l’esistenza del cosiddetto ergastolo ostativo, uno strumento sul quale oggi, a seguito di una sentenza delle Corti europee il nostro paese è chiamato ad effettuare una seria riflessione.

Ecco, Falcone immaginò di applicare il sistema premiale ai soli mafiosi che avessero – realmente – collaborato con la giustizia, le cui informazioni si fossero rivelate fondate e circostanziate, il cui pentimento sociale – non interiore, su quello ancora nessuno è in grado di avere certezze – fosse realmente uno strumento utile allo Stato, dando così vita ad una delle legislazioni più avanzate d’Europa in tema di criminalità organizzata.

Oggi, la scarcerazione di Brusca – sul cui “reinserimento”, di Brusca come su quello di altri che potrebbero tornare in libertà, lo Stato, o meglio la comunità, deve individuare strumenti e luoghi per monitorare, verificare, controllare – mette, per la prima volta, forse, la funzionalità della giustizia realmente a confronto con la coscienza dei cittadini, con il dolore collettivo che hanno provocato certe ferite. E le reazioni sono le più disparate.

Ci sono quelle indignate, giustamente, dei familiari cui nessuno potrà mai chiedere di perdonare; ci sono quelle – ipocrite – di una certa politica che, sui giornali invoca il “buttiamo via la chiave”  e  in parlamento lavora per ridimensionare gli strumenti di lavoro della magistratura ché, in certi casi, garantismo fa rima con impunità. La mafia non è più, da tempo, un fenomeno stragista, sanguinario, collocato regionalmente: oggi la mafia è un sistema economico strutturato e diffuso, in tutto e per tutto alternativo allo Stato.

Proprio i tempi che stiamo vivendo, l’evoluzione del fenomeno, gli interrogativi che ha posto al nostro paese la sentenza europea ci impongono, invece, di aprire una reale e profonda riflessione sul fenomeno del pentitismo, sulla sua attualità oltre che utilità, sulla legislazione premiale, sul significato e l’efficacia che hanno ancora certi strumenti.

Impegniamoci ad avviare un percorso che, senza ipocrisia, senza preconcetti, con lungimiranza e senso dello Stato, cercando di andare oltre l’apparenza, leggendo i fatti senza sradicarli dal loro contesto, ci consenta di immaginare soluzioni normative e dispositivi sociali in grado di rispondere alle nuove sfide che abbiamo di fronte.

Facciamolo con intelligenza, rigore e umanità.

Come ha fatto, in un tempo che appare lontanissimo, Giovanni Falcone.

Facciamolo, prima che si finisca per confondere il rispetto di una legge con il senso della parola giustizia.

Maria Flavia Timbro

Deputata iscritta al gruppo di LeU. Avvocato messinese, responsabile nazionale legalità e lotta alle mafie di Articolo Uno, componente del partito siciliano. Militante appassionata, si batte porta per porta, strada per strada, per cambiare il mondo prima che il mondo cambi lei.