La matriciana patrimonio dell’Unesco? Difficile da digerire

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Il ministro Martina ha nei giorni scorsi dichiarato che il Governo ha deciso di “candidare la tradizione amatriciana a patrimonio Unesco nell’ambito degli obiettivi del 2018, anno che come governo abbiamo voluto dedicare al cibo italiano”. A prima vista sembrerebbe una gran bella cosa: rinomanza internazionale, orgoglio culinario, incremento di turismo. Scavando un po’ più a fondo ci si rende però conto di trovarsi di fronte a una complessa questione digestiva. Digestione vuol infatti dire “separare, distribuire, disporre cose riunite” (e chiama in causa la distribuzione delle risorse pubbliche), ma anche “intendere o comprendere a pieno” (cos’è un’amatriciana forse lo sappiamo. Ma un patrimonio Unesco?).

In questo secondo significato, cerchiamo di digerire questa bella iniziativa del governo nel panorama più generale del patrimonio culturale e naturale italiano. Che il nostro Paese abbia un patrimonio eccezionale lo sanno tutti, un patrimonio che è tanto materiale (fatto di castelli e paesaggi, di musei e scavi archeologici) quanto immateriale (carnevali, tradizioni canore, pratiche rurali, eccetera). Cominciamo dal materiale: non serve essere storici dell’arte per vedere – non appena ci si allontana dai grandi centri (e talvolta pure restandoci) – quanti beni culturali siano inaccessibili, mal segnalati, sottoutilizzati, maltenuti, quando non in stato di abbandono. Il problema non è solo la mancanza di fondi per la gestione. Il problema è la non-gestione.

Con questo non voglio dire che il patrimonio non abbia anche bisogno di adeguati finanziamenti: da più parti è stato lamentato come “la legge di bilancio 2017 non avrà un impatto significativo sul bilancio del Mibact, che rimane assolutamente inadeguato rispetto alla necessità”. Lo sanno bene tutti coloro che si battono – da dipendenti pubblici e da cittadini – affinché i tagli per l’“efficienza” non si traducano sempre in riduzione dei fondi per le manutenzioni ordinarie. Di recente ha scritto sul punto Salvatore Settis che, analizzando i dati sulla spesa pubblica provenienti da fondi governative, ha rivelato che – contrariamente alla propaganda mediatica – la spesa italiana per la cultura non è aumentata, e che restiamo il “fanalino di coda” dell’Europa (con poi un drammatico disinvestimento nel Sud).

Leggendo brevemente i comunicati delle diverse esperienze locali portate da Italia Nostra scopriamo poi, ad esempio, che mentre il nuovo management della Reggia di Caserta viene pubblicizzato (anche meritevolmente) a spron battuto, attorno a Caserta “continua inesorabile la pratica degli abbattimenti, che sta interessando in particolare gli isolati settecenteschi a ridosso del Parco Reale”. Il fenomeno non riguarda solo alcune frazioni sperdute nella provincia, ma ferisce al cuore alcuni fra i nostri siti più prestigiosi. Come non ricordare Pompei, che tre anni fa subiva una serie di crolli causati da “forti piogge”. Dare la colpa alla pioggia non è onesto: in Italia è sempre piovuto. Se bastano dei temporali – per quanto intensi – a far crollare il patrimonio culturale è perché il sistema di protezione, monitoraggio e prevenzione è stato mal gestito, o mal governato, o magari entrambi. Di “situazioni annunciate” parlava all’epoca il Prof. Puglisi, allora Presidente della Commissione Nazionale per l’Unesco. Pompei è infatti un Sito Unesco, uno di quei patrimoni “di eccezionale valore per l’umanità” che l’Italia ha fatto riconoscere all’Unesco e che – davanti al mondo – si è presa la responsabilità di proteggere e valorizzare. Altro Sito Unesco sono le Ville Medicee. Lo scorso marzo (2017) – sempre a causa della “pioggia” – crollavano le mura della Villa Medicea di Poggio Caiano.

Ma quanto spende allora l’Unesco per la protezione dei Siti del Patrimonio Mondiale che si trovano in Italia? La risposta è zero. La responsabilità è solamente del nostro Paese, dal Ministero agli organismi preposti alla gestione di ciascun Sito. Peraltro, già nel 2009 l’Economist metteva in guardia rispetto a due fenomeni. Da un lato l’Unesco non ha alcun potere diretto nella gestione dei siti (senza il consenso dello stato, non può nemmeno mandare ispettori), avendo come unico strumento a propria disposizione quello di dichiarare “in pericolo” un dato sito. Dall’altro l’esorbitante proliferazione di Siti Unesco (111 nuovi siti, nel mondo, negli ultimi quattro anni) mette a rischio la credibilità di questo riconoscimento che, come denominazione, rischia di valere sempre meno. Si tratta di una dinamica in corso, dalla quale gli esperti da anni mettono in guardia e che ha portato alla decisione del Comitato per il Patrimonio Mondiale di limitare a un massimo di due all’anno le candidature che ciascuno stato può presentare.

Questa situazione è resa ancora più complessa dal fatto che – dal 2001 – l’Unesco ha creato la Lista del Patrimonio Mondiale Intangibile. Ne fanno parte pratiche, tradizioni orali, balli e rituali fra i più disparati. Questa lista ha subito attratto un certo numero di pratiche culinarie. Così, mentre la Germania organizzava una candidatura sulla tradizione del credito cooperativo (preparando così il terreno per una possibile tutela della propria normativa bancaria), la Francia candidava il “pasto alla francese”. Non potendo candidare una ricetta o un menù tipico (particolare forse sfuggito al nostro Governo, almeno stando alle dichiarazioni del Ministro Martina), il “pasto alla francese” altro non è che la tradizione di ritrovarsi a mangiar bene “per celebrare importanti momenti nella vita degli individui e dei gruppi, come nascite, matrimoni, compleanni”. Va peraltro ricordato che nella Lista del Patrimonio Intangibile figurano anche pratiche il cui valore universale è quantomeno dubbio. Se pensiamo, ad esempio, alla cerimonia di purificazione del bambino in Lagos (che prevede che un bambino che si ritiene aver smarrito la sua “mascolinità” venga sottoposto a tutto un rituale per cui in Italia come minimo ti mandano a casa i servizi sociali) ci rendiamo facilmente conto di come la credibilità dell’Unesco rischia di finire flambée.

In questo quadro, da anni gli studiosi hanno dimostrato che l’impatto locale delle candidature Unesco è molto più modesto di quanto ci si potrebbe aspettare. Per recuperare le centinaia di migliaia di euro che ci vogliono per mettere assieme una candidatura (che poi potrebbe comunque essere rigettata) potrebbero volerci anni. Senza menzionare che la gestione di una candidatura intangibile è assai più problematica di quella di un bene immobile tradizionale; perché bisogna individuare le comunità di riferimento del bene, richieder loro un assenso scritto, specificare come queste si impegnano a preservare in futuro il valore culturale della propria pratica, eccetera. Di fronte a una situazione in cui i nostri Siti Unesco materiali (quelli la cui protezione è ben più semplice) crollano, e di fronte a una popolazione seriamente provata, come si fa a dire che “candidiamo la matriciana a Patrimonio Unesco”? E’ una dichiarazione indigeribile. Anche perché il ministro non ha parlato a titolo personale. Non ha dato un’idea. Non ha fatto una battuta, magari con la lucidità che viene dopo un abbondante piatto di pasta alla matriciana. Il Mministro Martina ha espresso una volontà del Governo Italiano. Posto che Martina è ministro all’Agricoltura bisognerebbe suggerirgli di fare una tappa alle Cinque Terre, ridente località ligure che – manco a dirlo – è Sito Unesco. Se lo facesse (e promettendo di non candidare anche le trofie al pesto, perché l’Italia è già in cantiere la candidatura del “Caffè Espresso Italiano” a Patrimonio Intangibile Unesco) scoprirebbe che il dissesto idrogeologico che fa franare Pompei e le Ville Medicee mette in pericolo anche le Cinque Terre. La cosa interessante però è che già nel 2012 era pubblico uno studio che nelle parole del professor Agnoletti concludeva che: «Non c’è via d’uscita se non si comprende che la presenza dell’uomo come agricoltore è la migliore difesa contro il dissesto. Ogni volta che si va a cercare le cause dei disastri si scopre lo stesso problema: non c’è più gente che lavora la terra».

Anziché impegnarsi a spendere centinaia di migliaia di euro in un’improbabile candidatura dai ritorni economico-sociali perlomeno dubbi (l’amatriciana), perché invece non concentrarsi (con denari e vero governo della cosa pubblica) sul valore dell’agricoltura come risorsa per la gestione del territorio e la prevenzione dei crolli? Si potrebbe cominciare proprio da Amatrice, posto che il comune è situato al centro del Parco Nazionale del Gran Sasso, il cui direttore nel gennaio 2017 ha messo in guardia rispetto a “ una profonda trasformazione del territorio segnato da smottamenti, frane e slavine”. Peraltro, ove giustificati come contributo alla prevenzione del dissesto idrogeologico, aiuti di stato all’agricoltura non violerebbero neanche le norme europee in tema di concorrenza, e anzi si potrebbe anche accedere ai finanziamenti europei. Se poi si volesse davvero affrontare la questione del valore dell’Unesco per il nostro Paese, si dovrebbe digerire un’ulteriore questione: quanto investe il nostro Paese nel mettere a sistema il valore di conoscenze, ricerche e studi che l’Unesco commissiona ogni anno e che rende accessibile a tutti i suoi stati membri?

Questo è il compito della Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco. Se analizziamo i dati su organizzazione e dotazione finanziaria delle Commissioni Nazionali e compariamo la situazione italiana a quella degli altri paesi ci rendiamo conto che l’Italia è in una situazione paradossale: è uno dei pochissimi stati che neanche figura nell’ultimo censimento (2009) fatto dall’Unesco. D’altro canto la nostra Commissione per l’Unesco, a fronte di un compito molto importante e di un mandato assai articolato (che non si limita a supportare la valorizzazione dei Siti, ma comporta lavoro nei diversi ambiti dell’Educazione, della Scienza, della Comunicazione, eccetera), è – nelle parole del suo attuale e validissimo Presidente – “fatta di cinque valorosi funzionari, più un Presidente, e da trentamila euro di budget”. Digerire tutte queste informazioni comporta chiedersi se non sia forse più utile (senza nulla togliere al valore universale della tradizione amatriciana) dare risorse e promuovere riforme strutturali là dove serve. Qui offro solo alcune informazioni accessibili a tutti con una facile ed immediata ricerca su internet. Dopo un buon “Caffè Espresso Italiano” e un potente digestivo, perché non rimettersi al lavoro su “obiettivi per il 2018” più sostanziosi e meno indigesti? Il nostro Patrimonio se lo meriterebbe davvero.

Gabriele D'amico

Torinese, avvocato, appassionato di diritto ed economia della cultura, dottorando fra Berlino e Gerusalemme in diritti umani e diversità culturale. Consapevolmente olivettiano, credo nella capacità umana di superare la gregarietà del sistema limbico e ragionevolmente spero in un futuro di sviluppo umano integrale.