La “fede senza le opere”. I giuramenti di Salvini e l’Anticristo

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Stiamo assistendo, più o meno attivamente, a uno scontro senza precedenti sulla questione dei “valori”. Potremmo dire che “sul Vangelo e sulla Costituzione” si sta consumando una “questione di coscienza morale”. Andiamo con ordine.

Il 10 luglio un gruppo di suore e preti ha annunciato lo sciopero della fame e un presidio davanti a Montecitorio per “salvaguardare il principio di umanità” da “scelte attuate da questo governo che sono incompatibili con il Vangelo e con la Costituzione”. Qualche giorno prima, davanti al Duomo di Milano, Salvini giurava “sulla Costituzione e sui Sacri Vangeli” “fedeltà al popolo”, chiedendo ai suoi accoliti di “giurare con me”.

Si potrebbe, sul punto, richiamare l’analisi di Gian Enrico Rusconi sul tema del populismo come “rapporto carismatico fra il leader e il popolo”, o il parallelismo iconografico con le grandi cerimonie in cui persone comuni sedevano sul podio vicino a Hitler, “eventualmente disposti a giurare sul contenuto del discorso” come ci ricorda Ludolf Herbst nel suo saggio sul “Il carisma di Hitler: l’invenzione di un messia tedesco”. Limitiamoci invece a constatare che questi preti e suore e Salvini esprimono due visioni opposte. Almeno all’apparenza, però, i riferimenti testuali sono gli stessi: Vangelo e Costituzione.

Come spiegarsi questa dicotomia?

La risposta la possiamo trovare in Lelio Basso, nel suo riferimento alla “coscienza morale come massima fonte del diritto”: cioè o la Costituzione (e quei Vangeli che parlano di Uomo “venuto non per abolire la Legge ma per portarla a compimento”) la interpreti a partire dalla coscienza morale universale, oppure ne abusi la legittimità, la trasformi da momento di riflessione sul Bene comune a strumento contundente con cui “fregarsene” di ciò che ci rende più uomini e meno bestie. Una lezione dura e necessaria, per i civici così come per i credenti, specialmente in settimane in cui – come le scorse – il tema del ruolo politico del cristianesimo è tornato alla ribalta, con toni diversi, in modo impressionante e imprevisto.

Prima Galli della Loggia scrive che un nuovo partito di sinistra dovrebbe necessariamente “sentirsi (e magari anche dirsi) culturalmente cristiano” perché “alla fine, come ha ben detto Massimo Cacciari, solo il cristianesimo può tenere a bada i demoni della scienza, dell’economia e della tecnica riuniti assieme che incombono sul nostro futuro; e in generale, direi, anche quelli di ogni potere che si pretenda assoluto”. Poi Salvini ha fatto la “svolta mistica”, con tanto di giuramento sui Vangeli e sul rosario, riprendendo anche le parole di Benedetto Croce sul “non possiamo non dirci cristiani”. Infine Gianni Vattimo che, nella sua ultima intervista, dice “sono un credente e credo soprattutto nella Chiesa”. L’avessimo detto dieci anni fa sarebbe sembrata fantascienza: Vattimo che crede nella Chiesa, le suore che fanno lo sciopero della fame contro il Governo, Salvini come Giovanna d’Arco… Lo avessimo previsto ci avrebbero internati. Eppure è la realtà di questi tempi ultimi.

Per capire cosa sta avvenendo alle idee, e alle persone che le esprimono, vien fuori qui un grosso problema, che accomuna credenti e non credenti. E’ quello dell’enciclica che ancora manca a quelle del Novecento, ovvero quella sul rapporto fra fede e cultura. I cristiani sono forse un club culturale fra gli altri? I valori della Costituzione sono forse valori come altri, come la lingua che ogni popolo deve avere la sua e tutte hanno pari valore?

La pace, l’amare i nemici, il servire per amore, sono forse una delle tante forme di quei “valori e preferenze di ordine essenzialmente culturale” cui D’Attorre ha fatto riferimento alcuni giorni fa nel seminario sul futuro della sinistra? Si tratta di opinioni, sottoposte al vaglio ultimo delle maggioranze, o invece di sfondare la “barriera del qualitativo”, di bene e male come categorie della realtà che non si toccano eppure sono reali.

Sul punto – pur mancando un unico testo chiarificatore – i contenuti son già disponibili. La Fides et Cultura già emerge – infatti – tanto dagli studi laici sul concetto di diritti umani, quanto dal magistero della Chiesa. Già nel 2016 Papa Francesco aveva sottolineato come “la fede non è teoria, filosofia o idea, ma è un incontro”. E aveva aggiunto: “Se non ci si imbatte nella misericordia di Gesù si può recitare il Credo ma non avere fede”. Stessa posizione espressa alcuni anni prima da un famoso convertito, Fabrice Hadjadj, che da ebreo ateo di famiglia maoista è passato ad essere membro del Pontificio Consiglio per i Laici. Hadjadj affermava proprio che “l’Io rinasce in un incontro”, un incontro che è un “ritrovare la propria origine e quindi la propria originalità”.

Un incontro come quello di Adriano Olivetti a Montalto Dora nel 1942, un incontro in cui – come da lui stesso scritto alla futura moglie: “Dio mi provò in segreto un giorno, proponendomi la parabola del giovane ricco al quale Gesù rispose di render tutto ciò che possedeva per darlo ai poveri. Il modo in cui questo avvenne fu molto strano e un giorno sarai in grado di capire che il mio spirito, liberato dalle corruzioni terrene, fu pronto a obbedire a questo comandamento”.

Di nuovo un incontro, dunque, come Simone Weil, Edith Stein, don MIlani e tantissimi altri.  Incontrare l’Altro, l’Assoluto, la risposta che precedete la domanda… questo non è cultura, eppure come possiamo aprire questo discorso a chi non L’ha incontrato, o almeno non se ne è reso conto? Se ci possono essere cristiani che recitano il Credo e non hanno la fede (come ci dice papa Francesco, riprendendo quasi testualmente le parole di Ratzinger e una continuità ininterrotta nel magistero della Chiesa), ci possono essere non credenti che hanno – in una qualche misura – la fede?

La risposta la troviamo nella Lettera di Giacomo (sul rapporto fra fede e opere) riassunta così da Francesco: “Una fede senza opere non è fede, è solo parole”. E aggiunge il Papa: «I cristiani che pensano la fede ma come un sistema di idee, ideologico: anche al tempo di Gesù, c’erano. L’Apostolo Giovanni dice di loro che sono l’anticristo, gli ideologi della fede, di qualsiasi segno siano. Sono cristiani che conoscono la dottrina ma senza fede, come i demoni. Con la differenza che quelli tremano, questi no: vivono tranquilli”. Con questo metro possiamo giustamente comprendere che la “svolta mistica” di Salvini non è mistica, è pietrificare l’umana sete di Assoluto così da usare la Scrittura per darsi un alibi per non ascoltare l’invocazione di giustizia, di umanità, che proviene dai fratelli di ogni latitudine, dai giovani italiani che si suicidano alle vite che il Mediterraneo inghiotte a decine.

E’ così che il non credente, che pure ha incontrato il Bene (nello stupore davanti alla bellezza della natura o dell’arte, nell’amicizia, negli affetti, eccetera) e si è fatto autentico cooperatore della generosità, strumento di gratuità, di servizio al suo prossimo, lui sì dimostra con le opere la portata della sua fede. Nella sua consapevolezza di non aver incontrato l’Altro, il non credente è messo assai meglio dei credenti senza fede, che non hanno la fede e non ne sono manco coscienti. Solo il dialogo con l’Assoluto, con le grandi domande di senso che ci affliggono davanti alla bellezza, alla morte, alle gioie della vita; solo il dialogo che nasce dal cercare il totalmente Altro, l’illimitato, ciò che non proviene dal fare e dall’inventare dell’uomo, solo questa dialettica permette alle culture di non sclerotizzarsi, così trasformandosi in civiltà, in dinamiche aperte, in cammini di ricerca di senso e di autenticità umana.

La fede non elimina il dubbio ma, come ci insegna Carlo Maria Martini, ci consente di agire nonostante il dubbio, ci permette di affidarci, di fare del bene anche quanto ci verrebbe da trattenerci, ci fa dare anche se ci chiediamo “se lo merita veramente? devo proprio? avrà davvero bisogno?”.

In questo senso deve intendersi il pensiero di Galli della Loggia e di Cacciari: il cristianesimo serve nella sua capacità (mutuata dall’ebraismo) di avere più domande che risposte, di permettere un pensiero critico a partire dall’orto-praxia anti-idolatrica.

Solo conservando il senso dell’Assoluto, di ciò che non è legato a una certa opinione o cultura locale, possiamo costruire una speranza di senso che dia sostanza alla dignità, che ci faccia sperare che dentro l’uomo non ci sia solo carne destinata ai vermi, ma una scintilla, una possibilità di vera umanità, una capacità di rispondere alla coscienza morale universale, qualcosa che è, che ci risveglia dal torpore della materia e che in questo ci motiva al dare sbadatamente, al fare con gratitudine, all’amore servizievole.

Senza queste opere la fede si rivela assente. E dunque ogni residuo riferimento ai “valori” del Vangelo e della Costituzione si dimostra essere quegli “ideologi della fede” che – ci dice il Papa – “l’Apostolo Giovanni dice di loro che sono l’anticristo, di qualsiasi segno siano”.

Gabriele D'amico

Torinese, avvocato, appassionato di diritto ed economia della cultura, dottorando fra Berlino e Gerusalemme in diritti umani e diversità culturale. Consapevolmente olivettiano, credo nella capacità umana di superare la gregarietà del sistema limbico e ragionevolmente spero in un futuro di sviluppo umano integrale.