La cultura scende in piazza. Il 6 ottobre una manifestazione che dà speranza

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Guardo al mio Paese dall’estero. Da quattro anni vivo in Germania. Per nulla in fuga, mi guadagno da vivere con quel poco cervello che ho, e grazie a quel tanto che ho ricevuto: formazione d’eccellenza, borse di studio, grandi maestri e un panorama culturale che mi ha sostenuto con la bellezza dell’arte ed estasiato con le luci della mia Torino, che si sveglia con l’alba dalle colline e si riposa coi tramonti dietro le Alpi. Mi è andata bene: non mi sarò arricchito, ma la conoscenza m’ha davvero reso libero.

La mia sorte è molto diversa da quei 150mila ragazzi che – ogni hanno – abbandonano la scuola e spariscono dalle statistiche ufficiali. Una catastrofe culturale la definisce l’Espresso, che sul tema ha fatto un lungo e ottimo reportage. Per inciso, prima o poi qualcuno dovrebbe anche dare atto a Bersani di averne parlato da mesi, per primo e tristemente inascoltato. Come non amo chi usa l’espressione “cervelli in fuga”, così tendo a guardare con sospetto a chi anzitutto pensa allo “spreco per la collettività”. Chi abbandona la scuola nella maggior parte dei casi lo fa perché ha perso la speranza.

Compito di ognuno di noi, specialmente di quelli che avendola conservata son poi riusciti a sfangarsela, è quello di dare speranza a questi giovani. Dove trovarla però? Come possiamo dare speranza in un mondo migliore, in cui studiare, sacrificare momenti anche gaudenti di anni spensierati abbiano un significato futuro? Perché studiare se tanto poi sei destinato alla precarietà, ai lavoretti e all’avvilente realtà di una generazione che spesso deve abbandonare l’Italia per non farvi più ritorno?

La speranza non è un monolite, alcuni giorni ne abbiamo di più, altri di meno. Ce la si passa, come una manna che non si può conservare ma che lievita nella condivisione.

In questi giorni ho trovato grande speranza nell’apprendere delle iniziative di un gruppo di professionisti della cultura, fra le categorie professionali più bistrattate eppure più necessarie al rilancio del nostro Paese. Sono i lavoratori del Comitato Nazionale Fondazioni Lirico Sinfoniche, del collettivo di attori Facciamolaconta e del gruppo “Mi riconosci? Sono un professionista dei Beni culturali”.

Si chiamano “Mi riconosci?”. Il punto interrogativo è d’obbligo. Li riconosciamo noi i professionisti della cultura? Cosa sarebbe l’Italia senza l’opera lirica, senza il teatro, che coi cui costumi dava impulsi a distretti creativi e della moda da cui poi sono nate importanti filiere manifatturiere e storie d’impresa (dalla sartoria alla gioielleria, dal design alle macchine di movimentazioni carichi)?

Eppure come ci sentiremmo se nostra figlio ci dicesse che vuole fare l’attore, o nostra figlia la restauratrice?

Questo gruppo di professionisti ha fatto molto di più che lamentarsi. Ha messo insieme, uno dopo l’altro, articoli e articoli che parlano di soluzioni concrete. Hanno studiato la normativa e redatto un elenco dettagliato di riforme necessarie. Dati alla mano dimostrano come ogni euro investito in cultura ne produca dai due ai cinque di ritorno. La cultura aumenta la qualità della vita, una buona fruizione culturale riduce le spese sanitarie, fa da volano alla creatività, permette turismo sostenibile e di qualità, valorizzazione del patrimonio e delle filiere produttive che – proprio perché bisognose di “atmosfera creativa” – non si possono delocalizzare e dunque costituiscono un vantaggio competitivo (sociale e commerciale) per il nostro Paese.

La cultura è il futuro dell’Italia. Per questo è importante la manifestazione per la Cultura e il Lavoro organizzata per il 6 ottobre prossimo, della quale si sono fatti promotori oltre 50 gruppi, tra associazioni culturali, organizzazioni sindacali, movimenti democratici, collettivi universitari e i tre promotori già menzionati.

È importante e dà speranza. Ci dimostra che per quanto bistrattati, troppo spesso sfruttati, generalmente non riconosciuti e con tutte le ragioni per deprimersi assai alquanto, i professionisti della cultura sanno di essere una risorsa per il Paese e ci dimostrano che studiando si è liberi di costruire, di metter giù un elenco di riforme sensate e necessarie, come un sistema omogeneo nazionale di abilitazione a guida turistica. Perché in Italia, un Paese-museo a cielo aperto, una normativa nazionale sulle guide turistiche ancora manca, alimentando approssimazione, precariato e danneggiando il sistema culturale nel suo complesso. E si potrebbe andare avanti.

Dall’estero guardare all’Italia vuol dire soffrire per le tragedie, evitabili quanto immani, dell’abbandono scolastico e del progressivo deterioramento civile delle istituzioni. Quando però la depressione ti bussa al cuore, realtà come quella dell’associazione “Mi riconosci?” ti commuovono per la sfolgorante bellezza dell’essere umani, per questa capacità molto italiana di lottare a mani nude contro un sistema che all’estero non riusciamo a spiegare.

Come per l’alluvione di Firenze gli italiani si scoprirono un popolo unito dalla cultura e per la cultura, così anche il 6 ottobre rivedremo la capacità che il meglio del nostro essere italiani si traduca in azioni concrete. A ciascuno di noi la responsabilità di fare la sua parte: la cultura è professione per alcuni, ma promuoverla e sostenerla è dovere di tutti gli italiani.

 

Gabriele D'amico

Torinese, avvocato, appassionato di diritto ed economia della cultura, dottorando fra Berlino e Gerusalemme in diritti umani e diversità culturale. Consapevolmente olivettiano, credo nella capacità umana di superare la gregarietà del sistema limbico e ragionevolmente spero in un futuro di sviluppo umano integrale.