I fatti di Tiburtino III e non solo quelli, visto il clima di intolleranza se non di vero e proprio razzismo, dovrebbero spaventarci. Sono il segnale che qualcosa sta montando, e che sale direttamente dai quartieri, dai territori, o come dicono molti dalla ‘gente’, meglio: dal ‘popolo’ stesso, magari il ‘nostro’. Sono espressioni e manifestazioni di destra, diciamolo subito e senza tentennamenti. Perché sono di destra l’intolleranza e il clima di minacce, sono di destra le vie brevi, l’azione diretta, nella fattispecie dei penultimi contro gli ultimi. Si parla in tali casi di ‘guerra tra poveri’. Anche se si tratta di una guerra asimmetrica, perché non va dimenticato che i rifugiati restano comunque i più poveri di tutti. Privi non solo di un reddito, di una famiglia, ma anche di un paese e di una storia, dimenticati dietro il muro di sofferenze e patimenti appena scavalcato, e che già molti vorrebbero innalzare ancora di più per impedire altri sbarchi. Tiburtino III è l’emblema, la crosta di superficie di un tremendo ribollire sottotraccia. Un fuoco attizzato e alimentato dalla destra peggiore, quella cattiva, quella dei muri e delle separazioni. Tutto questo grazie a una società senza presidi politici, dalla quale sono scomparsi i partiti, ridotti a carta velina, a marchio, a segretari che vendono libri, e dunque incapaci di mediare, di fronteggiare il disagio mutandolo di segno, o almeno deviandolo su obiettivi politici democratici. Questi non-partiti, al più, seguono la ‘scia’.
La politica che si ritira, come le maree, lascia il campo a un’onda di ritorno difficilmente governabile. Cavalcata da chi intende scagliare pezzi di società disagiata contro altri pezzi di essa, in un deflagrare che mette paura e lascia immaginare futuri distopici. Con la scomparsa dei partiti, con la sfiducia verso le istituzioni rappresentative, con la democrazia in crisi, gli effetti sociali divengono alla lunga devastanti. Il ‘popolo’ vezzeggiato da tutti quelli che cercano consenso a buon mercato, in questi frangenti esprime il peggio di sé, si carica di istintualità, mostra la ‘pancia’. Per la destra questo va benissimo (Berlusconi ha sempre parlato alla pancia del Paese, e così oggi Salvini), ma per la sinistra si tratta di una vera e propria tragedia. È per questo che il populismo può essere solo di destra, perché mette le istituzioni e la mediazione politica sul banco degli accusati, e riduce le relazioni possibili al rapporto tra Capo e ‘popolo’, che dunque ha sempre ragione anche quando esprime sentimenti razzistici e pensa e si comporta in modo intollerante. Se dal Paese sale un’onda nera, gli atteggiamenti populisti la rafforzano ulteriormente. La spirale è questa: i partiti (quelli che chiamiamo ancora ‘partiti’) quasi vezzeggiano lo spirito intollerante, questo ne esce stimolato e ovviamente rafforzato, i partiti accolgono anche questo nuovo livello di intolleranza e così via, in una tragica escalation.
Dovremmo trarne almeno un insegnamento. Almeno uno. Andare al ‘popolo’, qualunque cosa sia il ‘popolo’, è davvero un pessimo andare. Se i soggetti politici (dai partiti alle istituzioni) cessano di esercitare un ruolo attivo e di responsabilità, è come se contribuissero a incattivire un clima già pessimo. Ciò non vuol dire nascondere il disagio sociale, gli effetti della crisi, la povertà diffusa, le famiglie in difficoltà o il lavoro che manca. Anzi. Vuol dire solo che i problemi sociali debbono essere affrontati con le misure giuste, i provvedimenti adeguati, gli investimenti appropriati, e non alimentando il malessere e il dramma collettivo per specularci sopra, ai fini del mero, spicciolo consenso elettorale. Pendere dalle labbra della ‘gente’ o del ‘popolo’ non aiuta, e spesso fa dismettere il senso di responsabilità di chi vorrebbe farsi carico del Paese nella sua interezza. Schiacciare la democrazia nel rapporto stretto tra Capo e ‘popolo’ (tralasciando i ‘cittadini’, le ‘classi’, i ‘ceti’ e ogni altra organizzazione sociale) è già condannarla, destinando i poveri a una guerra con altri poveri, mentre i ricchissimi lo diventano sempre di più. La crisi della sinistra, crediamo, diviene lampante quando, alle prese con la società, ne resta abbacinata, incapace di districarne la trama, di fornire un punto di vista, una mediazione politica, un senso minimo di presenza attiva, una contro-ideologia rispetto a quella dominante. Quando questa crisi è ai massimi livelli, il richiamo del ‘popolo’ spinge la sinistra (o almeno una parte di essa) sulla sua scia, dimentica del resto, a ripetere formule e interpretazioni che sfiorano pericolosamente il pensiero della destra. Quando il ‘popolo’ è ridotto a istintualità, quando cade ogni mediazione dinanzi alla conquista del consenso, e la società è sola, distante dal Parlamento, e i partiti sono un filo tenue pronto a spezzarsi, o già spezzato – quando ciò avviene è la destra a sentirsi padrona, mentre la sinistra si arena tra l’incudine della protesta e il martello di istituzioni spossate e sfiduciate, scimmiottando i propri avversari.