Mariano, “ci hanno quasi costretto ad essere felici”. Viaggio dentro Articolo 1

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(Prosegue il nostro viaggio per conoscerci un po’ meglio dentro le storie di Articolo 1. La prima tappa è stata pubblicata qui. Presto ne arriveranno altre, salite a bordo).

Riprendiamo il nostro viaggio alla scoperta della comunità di Articolo Uno con un’intervista con Mariano Billo Paolozzi. Mariano è un campano verace, di professione giornalista, che risiede a Milano ma è ancora in sintonia con la sua terra, di cui conosce la storia e le evoluzioni, i tormenti e le speranze. Napoli la capitale del Sud; Napoli dolente, rivoluzionaria, levantina, assurda e spensierata; Napoli profonda e misteriosa; la città di Totò e di Masaniello nonché del Masaniello contemporaneo che risponde al nome di Luigi De Magistris, sindaco movimentista e di strada che in sei anni a Palazzo San Giacomo, fra alti e bassi, è riuscito, però, a guadagnarsi la fiducia di un ambiente difficile e in cui i rapporti umani, anche in politica, significano ancora qualcosa. Abbiamo chiesto a Mariano come si sia avvicinato alla politica e per quale motivo, di recente, abbia scelto Articolo Uno, e la risposta è partita da un ricordo personale: “Da bambino volevo giocare nella squadra più sfigata perché ritenevo gli sfottò che subivano un ingiustizia. La mia militanza nasce prima con le primarie di Romano Prodi e poi con il Pd. Sono, anzi ero, un cosiddetto nativo democratico. Quel sogno incompiuto di fondere le migliori sensibilità riformiste, quella socialista e quella liberale, il cattolicesimo democratico e la cultura più spiccatamente laica e repubblicana, ormai appartiene alla storiografia. Il Pd renziano ha guadato il fiume che divide la destra dalla sinistra e Articolo Uno è la mia nuova casa: l’obiettivo è aprirla agli elettori e alle istanze della sinistra. Un riformismo radicale e progressista, una forza popolare che metta le parole libertà, uguaglianza e giustizia in cima al proprio vocabolario. Enrico Rossi la chiama Rivoluzione Socialista: sono d’accordo”.

Durissimo il suo giudizio sulla nuova legge elettorale: il Rosatellum, approvato alla Camera con la forzatura della fiducia, peraltro la seconda in una sola legislatura dopo quella posta due anni fa sull’Italicum, e duramente contestato non solo da alcuni fra i più insigni costituzionalisti, che parlano apertamente di incostituzionalità del medesimo, ma anche da una parte degli editorialisti della stampa liberal-borghese. Afferma Mariano: “Mi sembra una legge che permette coalizioni farlocche a geometria variabile. Sostanzialmente il Parlamento sarà di nuovo di nominati, scelti dai capi partito. Ai cittadini è proibito eleggere i propri rappresentanti. Da un punto di vista più strettamente politico, è una legge che regala il Paese al centrodestra o costringe ad alleanze innaturali. Un autogol del Pd. E poi c’è la questione del voto di fiducia che non è una variabile indipendente: a mio modo di vedere, non si dovrebbe mai cambiare legge con le elezioni alle porte. Non c’è il tempo di farla digerire alla gente e, come la storia insegna, ciò non porta bene a chi la propone”.

Non meno amaro il suo commento relativo a ciò che sta avvenendo nella sua regione, anche se ormai è costretto a guardarla spesso da lontano, con il distacco critico dell’osservatore esterno: “In Campania domina il presidente De Luca, diciamo che regna, mentre a Napoli c’è De Magistris con il suo civismo spinto all’estremo. Sono due figure molto diverse ma ad accomunarli è la totale assenza di partiti ed una certa tendenza al masaniellismo. Il Pd a Napoli è quasi scomparso, la Campania è delucacentrica ma il presidente privilegia Salerno e sanità e trasporti languono. De Magistris, a sua volta, preferisce parlare di rivoluzione arancione e di ciò che sta accadendo in Catalogna mentre il Comune è in notevoli difficoltà finanziarie, a cominciare dall’azienda dei trasporti. Anche il centrodestra, tuttavia, è in grande difficoltà, solo che potrebbe persino tornare in auge a causa dello stato di abbandono in cui versano gli avversari. Quanto ai 5 Stelle, quasi non esistono, vittime come sono delle proprie faide interne. Diciamo che a Napoli, più che altrove, è necessario costruire una vera alternativa di sinistra, capace di declinare secondo una visione moderna l’annosa ma sempre presente questione meridionale, ispirandosi alla tradizione che va da Fortunato a Croce, da Chiaromonte a Compagna. Bisogna rilanciare gli investimenti pubblici, favorire quelli privati e dar vita ad un grande piano infrastrutturale. Napoli è una capitale importante, come dimostra il boom turistico che sta vivendo, e sinceramente merita di meglio”.

Non meno amaro il bilancio della legislatura che volge ormai alla conclusione: “Parto con un esempio: i dati sull’aumento dell’occupazione considerano occupato un quindicenne che lavora tre ore alla settimana. Il Pd e Renzi festeggiano, per me è una sconfitta. Il bilancio delle politiche attuate è fallimentare. La Buona scuola, tanto per dirne una, ha aggravato il peso della burocrazia, umiliato i docenti e scontentato le famiglie. Il Jobs Act precarizza un mondo del lavoro già precarizzato da almeno vent’anni. La politica dei governi che si sono succeduti in questa legislatura non ha colto la fase storica che stiamo attraversando: c’è sofferenza, la mia generazione rischia di scomparire, le disuguaglianze aumentano ogni giorno. Viviamo la più grande emergenza dal dopoguerra ad oggi, con un lavoro prossimo alla schiavitù o del tutto assente. L’eterna propaganda, il modo di fare arrogante e la continua ricerca del plebiscito, poi, hanno acuito il malessere generale. Ci hanno quasi costretto ad essere felici: chi protestava veniva considerato affetto da gufismo e i risultati di questa brillante gestione si sono visti al referendum dello scorso 4 dicembre”.

Infine le prospettive per il futuro, ossia ciò su cui dovrebbe interrogarsi la politica nel suo insieme, cosa che purtroppo, spesso, non avviene: “Il futuro è figlio delle scelte del presente. Il mondo occidentale l’Europa e il nostro Paese sono a un bivio. Occorre cambiare il paradigma che ha ispirato le politiche neoliberiste che hanno piegato gli uomini alle esigenze del mercato, sacrificato i lavoratori al capitale e cronometrizzato le nostre esistenze. La sinistra deve tornare ad usare parole di speranza, restituire un orizzonte: è sempre stato il nostro compito. Su un mondo che chiede disperatamente aiuto, rappresentanza e protezione soffia un vento pericoloso: quello delle destre xenofobe e populiste. Donald Trump ne è un esempio ma, come abbiamo visto di recente in Austria, rischia di essere solo l’inizio. C’è bisogno di un nuovo umanesimo che torni a porre le persone al centro del processo di crescita e sviluppo della società. Sarebbe lungo stilare un elenco delle cose da fare, pertanto lancio una sola idea: accettare la sfida di una società costituita sul lavoro diversamente inteso, accettare la sfida della fine del lavoro. Bisogna prendere esempio da ciò che hanno fatto, nei rispettivi paesi, Sanders, Corbyn, Mélenchon e il governo portoghese guidato dal socialista Antonio Costa. Nell’era della robotizzazione, bisogna puntare su una forte tassazione delle grandi corporation e mettere in campo politiche di redistribuzione efficaci. Lavorare meno, lavorare tutti? Perché no? Questi leader, la cui popolarità, specie fra i giovani, non viene capita dai nostri politici e politologi, è figlia di ragionamenti simili. Hanno avuto il coraggio di usare parole chiare: uguaglianza, giustizia, libertà. Regalano speranza. Lo spazio c’è e appartiene a chi lo occupa per primo. Che aspettiamo?”. Già, che aspettiamo?

Roberto Bertoni

Nato a Roma il 24 marzo 1990. Giornalista free lance, scrittore e poeta. Militante del Pd fin dalla fondazione, lo ha abbandonato nel 2014 in dissenso con la riforma costituzionale e con l'impianto complessivo del renzismo. Non se ne è mai pentito.