Il voto di domenica prossima sotto gli sguardi preoccupati dell’Europa

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La visita di Enrico Letta a Berlino ha mostrato a tutti gli sguardi preoccupati del cancelliere Scholz e dei dirigenti della SPD. Con la costruzione, sempre in itinere, dell’Europa politica che fa dei partiti transnazionali un pilastro della democrazia europea, siamo ormai avvezzi a un’agenda elettorale “continentale”. A questo giro, però, tira un’aria diversa, molto più grave.

Certo, i nostri partner europei, siano essi tedeschi, francesi, belgi o iberici, stanno guardando alla scadenza del 25 settembre con l’apprensione solidale di chi vorrebbe per i cittadini del nostro paese, per i lavoratori, per tutte le famiglie, per i giovani e le donne in particolare, un futuro certo e sostenibile, socialmente e dal punto di vista territoriale ed ecologico. 

Certo ancora, chi sta da questa parte della Storia non ha da vergognarsi dei propri riferimenti internazionali, e il mondo là fuori, con le sue crisi sistemiche così grandi che una qualsiasi “nazione” non potrà mai affrontare in splendido isolamento, rende ridicoli eventuali vagheggiamenti sulle ingerenze esterne da parte degli altri paesi europei.

Tuttavia, a questo giro la preoccupazione che si respira fra i paesi che sono attualmente nostri alleati nella costruzione di un’Europa più forte e più unita, ha una gravitas diversa. Il rischio che corre l’Italia a pochi giorni dal voto può avere conseguenze irreversibili anche per il resto del “sogno” europeo.

Dalla fine del 2019, e comunque certamente dall’inizio della pandemia, i ministri della Salute dell’UE hanno potuto contare su un collega, suo malgrado, pioniere. Hanno assistito al dramma del COVID in Italia, hanno imparato ad anticiparlo, ad anteporre la salute della popolazione alle libertà economiche, il finanziamento dei servizi pubblici al mantra neoclassico “meno stato più mercato”, hanno sentito il ministro Speranza parlare di vaccini bene comune. 

Un gruppo coraggioso e coeso di ministri del Lavoro (fatemi citare Pierre Yves Dermagne per “campanilismo” e Yolanda Diaz per la splendida riforma spagnola del mercato del lavoro – le donne non sono mica tutte uguali) ha potuto contare su un combattivo Andrea Orlando al fine di far progredire finalmente l’Agenda Sociale rimasta arenata per troppo tempo: salario minimo, protezione dei lavoratori delle piattaforme, meccanismi di sorveglianza delle crisi sociali nei paesi membri.

Al commissario Gentiloni è stato affidato il compito epocale di rivedere i meccanismi di coordinamento macroeconomico in Europa, affinché finalmente si punti su un futuro comune di investimenti solidali verso la lotta alle diseguaglianze, la transizione ecologica e digitale, come riforme di progresso imprescindibili per portare tutti i cittadini europei verso l’Agenda 2030, alla quale la poetessa Amanda Gorman ha dedicato proprio ieri una splendida ode, speriamo ascoltata. 

Potrei continuare, sono solo pochi esempi: ricordo “en passant” la sfida mastodontica della guerra e dell’energia, ci attendono battaglie enormi che richiederanno tanto coraggio, ma il punto è: dove e come finirà tutto questo, dopo il 25 settembre? Perché una piccola idea, per difetto, già ce la stiamo facendo. 

Di Orban si è detto molto in queste settimane, ma non tutto. Non si è spiegato per esempio, dopo l’ennesimo voto al PE e la proposta della Commissione (finalmente!) sul taglio dei fondi PNRR, che arriviamo tardi! Sono anni che i pochi amministratori locali ancora ragionevoli ci segnalano di non ricevere un forint di fondi strutturali. Sono anni che assistiamo a controriforme della giustizia, imbavagliamento della stampa, tagli al finanziamento della politica e della società civile, riorganizzazione di circoscrizioni e leggi elettorali… il sistema Orban è ormai inespugnabile. E non si è detto (dimenticanza imperdonabile) della “Legge della schiavitù”, riforma” del codice del Lavoro con la quale Orban risponde alla penuria di mano d’opera (nell’attesa probabilmente di far sfornare figli ungheresi alle donne ungheresissime) con un aumento fino a 400 ore di straordinario di fatto imposto per lavoratore… con la possibilità per le imprese di differirne il pagamento fino a tre anni (avete letto bene). Ci credo che Orban, Meloni, Vox, Salvini, sono contro il salario minimo, la protezione dei lavoratori e contro i sindacati! Come farebbero a fare questi regali alle tanto vituperate multinazionali, con un’Europa che vigila al rispetto delle norme sul lavoro?

Vogliamo parlare di Vox, tanto per cambiare latitudine? Certo, sono all’opposizione e speriamo ci restino per sempre, ma intanto stanno co-governando un’unica regione spagnola. Per fortuna visti i risultati calano nei sondaggi, ma vediamo in dettaglio. L’arsenale è noto e coerente con i vox de “noantri”, Dio Patria Famiglia Identità e Sicurezza. Ma c’è da sottolineare che in Castilla y Leon hanno già abolito tutte le disposizioni contro la violenza di genere (del resto sta nel loro programma nazionale) e tolto i fondi a tutte le associazioni che se ne occupano. Hanno anche abolito ogni sostegno all’occupazione femminile, specie in agricoltura. 

Sono profondamente anti-sindacato, hanno votato contro ovviamente la molto progressista nuova legislazione sulla protezione nel mercato del lavoro della ministra Díaz. E certo, pure a Orban non avrebbe fatto comodo. Ah, dimenticavo, Vox vuole abolire le leggi sulla Memoria (“lo Stato non deve dirci che cosa ricordare”), e Abascal sogna e agogna un ritorno della Spagna franchista cancellando tutte le autonomie regionali. 

Nel frattempo, Marine Le Pen si scaglia contro “l’imperialismo europeo” e contro le sanzioni alla Russia, mentre alcuni deputati di Alternative fur Deutchland si accingono a partire per un giro nei territori occupati dell’Est Ucraina, pagati dal Cremlino: non si riposano mai.

Non stupisce, quindi, che i dirigenti europei con un po’ di cervello e prospettiva si stiano manifestando per dare una mano, in Italia. Per dirci due cose: che non siamo tutti uguali, e che fatto il guaio non si torna indietro; i giovani britannici, dopo la catastrofe della Brexit, hanno chiesto a milioni una nuova possibilità, che ovviamente non c’e stata. 

L’Italia è un grande Paese fondatore dell’Unione europea. Con tutto il rispetto per paesi più piccoli, e la riconoscenza che devo alla mia patria di residenza che è il Belgio (un “grande” piccolo paese) L’Italia è la terza economia della zona euro, membro del G7 (oh certo, strumento tutto da rivedere, ma va fatto dal di dentro con grande autorevolezza), uno di quei paesi che nel dopoguerra ha disegnato insieme ad altri cinque un futuro di pace, riconciliazione e prosperità condivisa per il continente. Tanto è ancora da fare. Ma se il 26 settembre ci svegliassimo improvvisamente proiettati nel passato, anziché con lo sguardo verso il futuro, alla grande sofferenza per il Paese si aggiungerà l’imperdonabile responsabilità di aver ipotecato anche un pezzo dell’avvenire della nostra Comunità europea di donne e uomini, prima ancora che di “nazioni’.

Anna Colombo

Responsabile nazionale Esteri di Articolo Uno. Segreteria di Articolo Uno Belgio. Ex segretaria generale del gruppo S&D al parlamento europeo