“Il tramonto dell’avvenire”. Lezioni per la sinistra nel libro di Paolo Franchi

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Il titolo scelto da Paolo Franchi per la sua “breve ma veridica storia della sinistra italiana” dice già molto se non tutto: “Il tramonto dell’avvenire”. Gli anni presi in esame sono quelli dal 1976 al 2016. In pratica dallo scontro competizione tra i socialisti di Craxi e i comunisti di Berlinguer alla nascita e alla difficile adolescenza del Pd del Lingotto. Agli albori del renzismo, insomma. Schematicamente si può dire che si parte dalla crisi del Pentapartito di centrosinistra, si passa per mani pulite e poi si arriva ad un succedersi di nuovismi che travolgono i partiti tradizionali e il loro sistema aprendo la strada alla non lunga e non esaltante meteora renziana che, in nome di un futuro già cominciato, si infrange contro il fallimento di un referendum che ne avrebbe dovuto segnare il trionfo.

Ma quello di Franchi non è una sommatoria di più o meno ghiotti retroscena, dei quali sono comunque ricche le cronache politiche del periodo preso in esame. E’ un vero e proprio libro di storia di quello che è stato ed è tuttora un dramma tutt’altro che risolto della sinistra: quello della progressiva perdita di grandi e solidi punti di riferimento. Quelli che appunto ruotavano attorno alla prospettiva del sol dell’avvenire. Intendendo per essi i partiti e i movimenti politici tradizionali protagonisti della complessa e proporzionalista geografia politica italiana. Quei partiti che, come aveva osservato Togliatti all’indomani della svolta di Salerno, erano “la democrazia che si organizza” e che grazie al capo comunista di quei tempi, ma anche a una robusta classe politica che andava da De Gasperi a a Nenni e a Saragat e a La Malfa e, perché no, al mondo liberale, avevano codificato nei punti fondamentali della nostra Costituzione. Questa solida impalcatura che aveva consentito per oltre un trentennio la crescita e la tenuta della nostra democrazia repubblicana, viene ad un certo punto rapidamente sgretolata da un succedersi di avvenimenti. Il principale dei quali è certamente l’irrompere della cosiddetta stagione di Mani pulite: i partiti tradizionali, in primo luogo i socialisti e i democristiani, vengono decimati a colpi di avvisi di garanzia (in larga parte fondati, perché il livello di corruzione nella politica aveva superato i limiti di guardia) con il sostegno delle genti. In fondo la contestazione a Craxi con le monetine lanciate all’uscita dall’albergo dove risiedeva il leader socialista vedono insieme fascisti e reduci da un comizio comunista che si era tenuto nelle vicinanze.
A questo punto però si fa strada nell’opinione pubblica, sempre incline a cedimenti se non populisti genericamente qualunquisti, l’idea che i partiti tradizionali siano da liquidare e che la cosiddetta società civile debba scegliere nuovi strumenti. Quali? Di solito in un Paese attraversato da fenomeni corruttivi si devono mettere in condizione di non nuocere i corrotti. E questo naturalmente spetta alla magistratura. Delle cui decisioni i partiti e la politica dovranno prendere atto e tenere conto.
Invece nel dibattito politico e mediatico nostrano si fa strada quasi l’idea che tutto quello che è avvenuto (l’abnorme corruzione) è colpa soltanto della politica e, perché no, del sistema dei partiti, anzi dei troppi partiti. Ed è in questo modo che comincia la corsa al “nuovismo”. O meglio ai nuovismi. Giornali, televisioni, organizzazioni imprenditoriali e loro autorevoli esponenti, cavalcano l’onda giustizialista, e attaccano la “Casta”, che naturalmente è soltanto quella della politica e dei partiti tradizionali.
Già la casta, il nuovismo, il sistema politico da cambiare, magari andando verso soluzioni maggioritarie. Il dibattito sulla nuova legge elettorale. I referendum di Segni che modificano la legge elettorale, l’elezione diretta dei sindaci. Cose che piacciono. Anche a sinistra. Si passa dall’idea che i partiti siano la democrazia che si organizza alla conclusione che la democrazia non debba più passare attraverso l’organizzazione dei partiti. E allora meglio i partiti liquidi, meglio le primarie al posto dei congressi, e soprattutto partire dalla vocazione maggioritaria. E così piano piano, dopo che Berlusconi è in campo da tempo, si arriva al Lingotto e alla nascita del Pd. E intanto la sinistra è sempre più confusa nella sua identità. La socialdemocrazia è roba vecchia. Anzi peggio è “novecentesca”. La dottrina sociale della Chiesa? Roba da cattocomunisti. Magari da papa Francesco.
Naturalmente queste affermazioni così perentorie nel libro di Franchi non le trovate. Ma sono tutti pensieri che mi sono venuti e tornati in mente, leggendo quelle pagine, e magari, riflettendoci su. Colpisce poi una cosa: il punto di osservazione di Franchi è quello di un giornalista nato dalla politica (la Fgci, e il Pci e poi Rinascita e Paese sera). Roba vecchia appunto. Novecentesca, ma che consente di vedere e raccontare la politica e la sua storia assai meglio di coloro che lo fanno (non ne sono mancati e non ne mancano) con la pretesa di dover spiegare alla politica come questa deve essere fatta senza mai averla frequentata con passione e convinzione. Ecco, credo che, se davvero si dovesse aprire nel centrosinistra un grande dibattito sulle idee e sul futuro del centrosinistra e del suo partito, come si evince da alcune affermazioni non soltanto di Zingaretti, il lavoro di Franchi davvero sarebbe indispensabile per capire e spiegare le radici di quelle idee. Senza le quali non ci sarebbe futuro, ma soltanto “il tramonto dell’avvenire”.
Infine vorrei citare l’ultima frase  di un filosofo ungherese che conclude questo bel libro: “Avrebbe detto il giovane Gyorgy Lucàcs, una sinistra che considera il socialismo alla stregua di un cane morto, e vive solo in un eterno gramo presente, il suo avvenire lo ha dietro le spalle”.
Guido Compagna

Giornalista. Ha raccontato e commentato per oltre trent'anni le vicende politiche e sindacali sul Sole 24 Ore. Prima: La voce repubblicana, Nord e Sud, Il Mondo, Il Globo di Antonio Ghirelli e Il Giornale nuovo di Montanelli