Il capitalismo liberista non merita di durare. E la sinistra deve cambiarlo

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Non c’è dubbio che la sinistra italiana e quella internazionale sperimentino situazioni di difficoltà molto serie. Nonostante la crisi del capitalismo liberista manifestatasi col crollo del 2007-08, la sinistra non sembra in grado di recuperare identità e iniziativa politica, condizionata, frenata e paralizzata dalla sua adesione acritica al pensiero economico dominante negli ultimi 30 anni.

In assenza di un modello di società alternativa, oggi l’unica soluzione che si presenta sembra essere la scelta tra soluzioni neo-nazionaliste e sostanzialmente reazionarie e autoritarie, e un arroccamento difensivo delle élites dei vari Paesi.

Ciò non deve sorprendere. La visione del mondo e l’organizzazione dell’economia che avevano segnato il successo delle sinistre nei 30 anni successivi alla conclusione della seconda guerra mondiale hanno subito, tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 del secolo scorso, una sconfitta storica, sia sul piano culturale che politico per l’esaurimento della spinta propulsiva del keynesismo e del compromesso socialdemocratico arenatisi nella stag-flazione, negli eccessi sindacali, nell’uso dissennato delle imprese pubbliche, nella corruzione politica. La soluzione liberista rappresentò allora per molti una sorta di liberazione fornendo in apparenza una prospettiva per il futuro. Pochi allora realizzarono che le riforme portate avanti avrebbero posto le basi per liquidare progressivamente decenni di lotte e conquiste, redistribuendo il potere economico e politico a favore dei tradizionali ceti dominanti e di un’inedita finanziarizzazione delle economie.

Ma questo è ciò che è accaduto, e il recupero appare molto complicato, soprattutto perché ritornare tout court al modello precedente oggi appare impossibile. Soluzioni equivalenti vanno studiate e proposte, ma partendo dal contesto globale attuale.

Il problema fondamentale che accomuna tutti i Paesi sviluppati è oggi la crescita straordinaria delle diseguaglianze all’interno di ognuno di essi, che non è altro che l’esito inevitabile di 30 anni di liberismo e mercatismo. Il fatto che l’aumento delle diseguaglianze si sia associato al riscatto di enormi masse di diseredati nei Paesi emergenti, e che quindi la diseguaglianza tra Paesi si sia ridotta, non cancella la circostanza che ciò è avvenuto a spese dei redditi e dell’occupazione dei ceti medi americani ed europei e a beneficio dei grandi gruppi multinazionali, delle grandi banche, e soprattutto dei loro manager.

Si tratterebbe allora di introdurre riforme radicali nel funzionamento dell’economia mondiale che riguardano sia le politiche macroeconomiche che gli assetti istituzionali, le politiche retributive e il ruolo dei sindacati, le politiche fiscali, della concorrenza, del welfare, eccetera. Si tratta di interventi che andrebbero effettuati sia a livello nazionale che sovranazionale.

Ma preliminarmente va posto con forza il problema della legittimità stessa del capitalismo liberista in quanto tale: un sistema che non è in grado di assicurare una crescita ragionevole, occupazione e posti di lavoro decenti, che concentra redditi e patrimoni in poche mani, che rischia continuamente il collasso finanziario, che non è in grado di programmare la transizione energetica e pone a rischio il futuro dell’umanità, che non sa gestire i fenomeni migratori, e che crea sul piano politico e sociale conflitto, radicalizzazione e rischi di guerra, e cancella il futuro di intere generazioni, non merita di durare e va profondamente riformato.

Finché tutto ciò non diventerà senso comune, è difficile immaginare un futuro per la sinistra che nacque proprio per denunciare queste drammatiche ingiustizie, e che oggi è afona e inconsapevole in molti dei suoi rappresentanti. In mancanza di una piena consapevolezza culturale e politica, è inevitabile che la gente comune tenderà a riconoscersi nelle proteste e rivendicazioni populiste, per quanto semplicistiche e inaffidabili possano essere.

Molte cose andrebbero cambiate. Le politiche macroeconomiche dovrebbero ridare centralità alla promozione dell’occupazione; i debiti nazionali andrebbero diluiti e progressivamente riassorbiti come avvenne nel secondo dopoguerra; il ruolo di indirizzo delle politiche pubbliche andrebbe riconosciuto e rafforzato; lo stesso dicasi del ruolo dei sindacati; il progresso tecnologico andrebbe orientato in direzioni non avverse al lavoro e alla sua retribuzione. Il sistema finanziario andrebbe radicalmente riformato: le banche sono oggi troppo grandi, troppo potenti e troppo pericolose, e la situazione si è ulteriormente aggravata dopo la crisi del 2007-08 grazie ai salvataggi intervenuti e alle fusioni ed acquisizioni che ne sono derivate.

Va rilanciata la lotta ai monopoli: negli ultimi trent’anni è aumentata la concentrazione dei sistemi produttivi in tutti i settori; le politiche della concorrenza hanno dato scarso rilievo alle dimensioni assunte dalle imprese e quindi alla loro capacità di controllare e influenzare il funzionamento dei mercati (e dei governi), nella convinzione che fusioni e acquisizioni, nella misura in cui comportassero costi più bassi, portassero comunque benefici ai consumatori. Ciò è illusorio. E in realtà abbiamo assistito ad un enorme processo di estrazione di rendite, spesso a scapito di imprese più piccole, situate in Paesi di modesta rilevanza politica, che sono state eliminate, con la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro e l’indebolimento dell’economia e dell’autonomia del Paese considerato. Lo stesso può dirsi delle normative sui brevetti che hanno avuto e hanno la stessa funzione di estrarre rendite da situazioni di monopolio artificialmente create dai governi.

Andrebbero cambiate le politiche retributive e le modalità di governance delle imprese che non sono più indirizzate al soddisfacimento dei clienti, al miglioramento della produzione e alla valorizzazione della forza lavoro, bensì alla massimizzazione del valore per gli azionisti, nuovo imperativo etico, che implica la massima durezza nei confronti dei dipendenti e dei fornitori, la compressione delle paghe e dei salari, e naturalmente compensi stratosferici per i manager. Un ulteriore problema è rappresentato dalle imprese che controllano le piattaforme digitali. Si tratta di monopoli che utilizzano il frutto gratuito delle attività degli utilizzatori, che si appropriano dei loro dati che poi usano o rivendono, monopolizzando al tempo stesso pubblicità e attività di intermediazione. Si tratterebbe a rigor di logica, di imprese che andrebbero regolate e smembrate, esattamente come le grandi banche.

Interventi molto importanti dovrebbero intervenire nelle politiche fiscali per evitare la scandalosa elusione fiscale delle multinazionali, la concorrenza fiscale dannosa, e la fuga verso i paradisi fiscali che andrebbero combattuti sistematicamente e senza esitazioni. L’evasione fiscale andrebbe sconfitta con l’ausilio delle nuove tecnologie; andrebbero abbandonate le aliquote piatte per le imposte sui redditi, ritornando a strutture chiaramente progressive, andrebbero tassati come redditi le stock options e i bonus dei dirigenti, introdotta una imposta personale progressiva sul patrimonio complessivo (mobiliare e immobiliare) e riformate le imposte di successione; e soprattutto andrebbe superato il sistema di finanziamento del welfare mediante i contributi sui redditi di lavoro, estendendo il prelievo all’intero valore aggiunto.

E’ possibile tutto questo? Certo non è facile. Ma senza una rinnovata presa di coscienza generale della iniquità del funzionamento delle economie contemporanee e delle sue cause non sarebbe possibile compiere progressi significativi, e le masse popolari resterebbero strumento di manovra per la propaganda nazional-populista funzionale al mantenimento dei privilegi attuali da parte dei ceti dominanti.

Per quanto riguarda il nostro Paese, la prima questione da affrontare è quella europea. Non c’è dubbio che l’adozione generalizzata di politiche di austerità ha provocato danni gravissimi e che esse sono state provocate dall’adesione a teorie economiche chiaramente errate.

L’olocausto del popolo greco ha dimostrato chiaramente a che punto eccessi ideologici, pregiudizi, e volontà di potenza e discriminazione politica possono condurre. Va quindi condotta una battaglia esplicita su questi aspetti, sul ruolo delle BCE, sull’unione bancaria, sugli investimenti pubblici, sul fiscal compact, le politiche industriali eccetera, cercando alleanze, sollevando problemi, avanzando proposte, contestando la leadership franco-tedesca, che in realtà negli ultimi dieci anni è stata solo germanica, cercando di costruire un’alleanza ampia dei Paesi che non accettano più le ricerche economiche tedesche. Non ci si può limitare a chiedere flessibilità, anzi sarebbe preferibile rispettare sempre e comunque i trattati per acquisire maggiore forza contrattuale, ma è evidente che l’Europa è il terreno di lotta più prossimo e per noi decisivo. Naturalmente le illusioni e le regressioni sovraniste diffuse anche nella sinistra vanno respinte perché non portano da nessuna parte.

Anche in Europa è necessaria una svolta antiliberista, a favore della crescita e della redistribuzione del reddito. Alcune misure di sicuro impatto positivo possono essere anticipate nell’Unione prima che si estendano a livello globale. E’ necessario difendere il sistema di welfare europeo per cercare di contenere e contrastare le spinte populiste che non sono altro che il frutto delle politiche seguite dopo la crisi del 2007-08 (e non dopo l’introduzione dell’euro, come alcuni continuano a sostenere).

L’Italia infine deve utilizzare tutti i gradi di libertà compatibili con la partecipazione all’Unione Europea e alla moneta unica. E’ stato dimostrato (dal Nens, ma non solo) che concentrando le risorse sugli investimenti produttivi (infrastrutture, conversione energetica, risanamento urbano e territoriale, ecc.) è possibile riportare rapidamente la crescita sopra il 2% aumentando al tempo stesso la produttività della nostra economia. Occorre avere una strategia di crescita per l’Italia, la cui crisi dipende dal fatto che il modello di sviluppo post bellico, basato sulle grandi imprese pubbliche, ma anche private, sulla diffusione di una imprenditoria minore ma dinamica, sui finanziamenti bancari e la gestione consapevole del credito, è venuto meno e non è stato sostituito da un disegno alternativo minimamente convincente che non fosse un liberismo d’accatto basato sulla deregolamentazione, sull’affarismo, l’evasione fiscale, la compressione dei diritti dei lavoratori. In questo contesto la soluzione definitiva del problema meridionale deve essere il punto centrale di una politica di riforme in cui il ruolo dello Stato e delle imprese pubbliche deve tornare a svolgere una funzione di stimolo supplenza e sostegno

Affrontare tutti questi problemi a livello nazionale, europeo e internazionale rappresenta una grande sfida per la sinistra italiana, oggi paralizzata e confusa tra l’incomprensione del Pd delle origini della sua sconfitta e la frammentazione a sinistra del Pd. Ma soprattutto la sinistra deve recuperare conoscenza, consapevolezza, cultura e umiltà, misurandosi con i problemi reali e puntando sul medio periodo.

Vincenzo Visco

Economista e politico. È stato ministro delle finanze e del tesoro e viceministro dell'economia con delega alle finanze prima nel governo Ciampi e poi in quelli dell'Ulivo. Ha fondato il Centro Studi Nens insieme a Pierluigi Bersani