I frutti della crisi e la nuova rivoluzione industriale: un libro

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Quando la crisi apparve all’orizzonte, nel settembre 2008, con lo shock del fallimento della Lehman Brothers, subito si disse: attenzione, la crisi non lascia mai le cose come prima. Quanti incontri, quanti convegni, sulla base del mantra della “crisi come risorsa”, della “crisi come opportunità”; insieme all’incalzare, da un certo punto in avanti, di una generica predicazione del cambiamento, mentre i problemi andavano scivolando, senza risposte, come sabbia tra le dita. Succede agli apprendisti stregoni: a forza d’invocarlo, il cambiamento arriva, come uno spettro, però, dotato di un propria autonomia, sino a contraddire non questo o quello specifico aspetto dell’impianto istituzionale, ma i fondamenti della Costituzione. Non già per via di improbabili o velleitarie riforme costituzionali; fattualmente. L’azione che si dispiega ogni giorno sotto i nostri occhi, almeno sin qui, sembra più interessata ad agire, in forme radicali, sulla Costituzione materiale. Sino a disconoscere fondamenti quali la sovranità “che si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” (articolo 1); il principio di non discriminazione (articolo 3); o la conformità dell’ordinamento giuridico italiano “alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” (articolo 10).

Nel frattempo, gli effetti sulla questione sociale hanno fortemente destrutturato la situazione pre-crisi, segnata dalle faglie di un movimento tellurico che ha agito in profondità e di cui osserviamo gli esiti su una società, insieme, sfiduciata, impaurita, incattivita. La rottura della relazione. 1) Quella tra rappresentanti e rappresentati (politica/società). 2) Quella tra noi e gli altri (demografia/immigrazione). 3) Quella tra noi e il mondo (identità/globalizzazione). Sino a una condizione di irrilevanza, nell’approfondirsi della disintermediazione, per tutto ciò che non sia comando verticale dall’alto: dal capitale sociale al terzo settore al mondo non profit. Ciò che motiva le ragioni della canea contro le Ong – o, sul territorio, contro la cooperazione sociale – è anche in questo approccio, culturale oltre che politico. Ed è anche così che la crisi, da economica si è fatta sociale, da sociale sta diventando democratica.

Una crisi tutt’altro che conclusa. Ci siamo, tuttora, dentro. Dentro una transizione italiana che continua a non avere un saldo punto di approdo. Anche per la mancata crescita, ulteriormente accentuata, stando non alle parole ma ai fatti, dalle politiche dell’attuale governo. Ma, dopo oltre un decennio dal suo avvio, da un lato possiamo trarre conferma del fatto che la crisi non lascia le cose come prima, che essa, anche a causa dei limiti delle politiche messe in atto, è stata l’humus di reazioni regressive come quelle che hanno favorito l’esito elettorale del 4 marzo, sino all’alleanza tra Lega e M5s, a cui ha dato una mano l’insipienza di chi non ha voluto adoperarsi per tenere queste due forze separate, auspicando, addirittura, un loro accordo. L’opzione sovranista, non sappiamo per quanto, domina la scena. Nel tentativo di cogliere due attese: protezione sociale e un’impostazione securitaria. Possiamo fare molti giri intorno alle parole, la risultante, tuttavia, è di destra. Una destra nuova, anche se, in alcune sue espressioni, caricatura del passato.

Per tutte queste ragioni, l’ultimo libro di Patrizio Bianchi, 4.0. La nuova rivoluzione industriale, Bologna, il Mulino, finito di stampare nel mese di ottobre 2018, è prezioso, perché può aiutarci a capire meglio la situazione oltre la nebbia delle chiacchiere del day by day. Bianchi è professore di Economia applicata nell’Università di Ferrara, dove è stato Rettore sino al 2010, assessore della Regione Emilia-Romagna, a coordinamento delle politiche europee allo sviluppo, scuola, formazione professionale, università, ricerca a lavoro.

Per Bianchi, la crisi è stata incubazione di qualcosa di più strutturale: la “nuova rivoluzione industriale” (p. 41). Questo l’assunto di fondo. In un ragionamento che si dispiega nelle pagine di un testo breve e scorrevole che prende le mosse dall’opera che “possiamo ritenere il punto di partenza dell’economia politica”: la Ricchezza delle nazioni” di Adam Smith (p. 13). Laddove si spiega che: “i più grandi avanzamenti nel potere produttivo del lavoro e la maggior parte della competenza (skill), della manualità (dexterity), dell’intelligenza (judgement) con cui viene attivato questo lavoro, sembrano essere effetti della stessa divisione del lavoro” (p. 13).

Quindi: competenza (skill). Manualità (dexterity). Intelligenza (judgement). Questi i criteri per valutare l’evoluzione della performance economico-sociale, da allora a oggi. A fondamento dello sviluppo, un certo intreccio tra pensiero filosofico, dottrina dello Stato, concezione dello società, conquiste scientifiche, applicazioni tecnologiche, sviluppo produttivo. Il vapore nella prima rivoluzione industriale (dalla metà del Settecento alla seconda metà dell’Ottocento). L’elettricità, ma anche il vapore a scoppio, nella seconda rivoluzione industriale (dalla fine dell’Ottocento agli anni Cinquanta del Novecento). Il computer e le telecomunicazioni nella terza rivoluzione industriale (dalla fine degli anni Cinquanta alla fine del Novecento). Sino all’attualità, tuttora in divenire, di Internet, dei big data, dell’intelligenza artificiale, la “quarta rivoluzione industriale” (p. 16).

Giustamente Bianchi ricorda il legame della parola rivoluzione con il campo dell’astronomia. Revolutio da revolgere, rivolgimento, quindi incessante “ritorno” a un fondamento originario (p. 22). Come definirlo? Un mix di epistème, téchne, labor, che, senza visioni deterministiche, interagisce con la sfera sovrastrutturale delle idee, delle opinioni politiche e dei sistemi istituzionali. Sino all’hyperconnection, all’interconnessione continua (p. 48), quella “non solo fra sistemi produttivi, ma sempre più fra le singole persone” e “che ha mutato la stessa quotidianità di popolazioni anche fra loro lontanissime per storie e tradizioni” (p. 57). Qui si mostra “quel modello organizzativo della produzione che viene indicato come industria 4.0 – cioè una completa digitalizzazione e integrazione della produzione” (p. 43), introdotta dal governo tedesco con Industrie 4.0 (p. 111).

Ovviamente la crisi, globale, non ha inciso, nei diversi Paesi, allo stesso modo. Alcuni hanno fatto passi indietro, altri passi avanti, altri ancora sono cresciuti con ritmi sorprendenti. Bianchi cerca di tirar le fila di questo “rivolgimento” planetario. Osservando come, a oltre dieci anni dal rovescio della Lehman Brothers, continui a segnalarsi come rilevante il dinamismo della Cina, risultato “degli investimenti in ricerca, o meglio in quella ricerca che porta a esiti produttivi, cioè nel rafforzamento di quell’impianto di tecnoscienza, che riteniamo come fondante di questa nuova fase dell’economia mondiale” (p. 54). Un dato che “si rafforza verificando come cresca l’offerta di robot industriali. Dopo essere stata fino al 2009 attorno alle 100.000 unità per anno, la produzione mondiale di robot supera rapidamente le 250.000 unità per anno” (p. 54). Non per caso: “Le tre imprese con base nel Guangdong dispongono quindi del 23,5% del mercato, una percentuale maggiore di Samsung e il doppio di Apple” (p. 56).

Per questo occorrerebbe riprendere “un’azione in cui tutto il sistema educativo e professionale si interseca con il sistema della ricerca e della produzione” (p. 98). Una capacità di resilienza che sappia tradursi in innovazione sociale, in un nuovo welfare, “che si nutra di queste innovazioni e che diventi il nuovo terreno di coesione in grado di sostenere nuova cultura, nuova educazione, nuove risorse umane che rendano dinamico l’intero corpo sociale” (p. 98).

Bianchi ricorda come la parola di uso comune robot venga dal ceco robota (lavoro forzato). Come l’impiego della robotica non significhi (soltanto) che le macchine “sostituiscono e surrogano mansioni svolte dall’uomo”, ma che le macchine “svolgono attività che, per precisione e condizioni ambientali, non potrebbero essere svolte dall’uomo” (p. 82); questo un punto importante: l’utilizzo delle macchine in quanto “più capaci di svolgere funzioni che per pericolosità, precisione e condizioni non possono essere svolte direttamente dall’uomo” (p. 113).

Senza considerare che “il salario medio orario di un lavoratore americano nel settore automotive è di 30 USD, quello di un operaio cinese a pari qualifica è di 3 USD, ma il costo medio di un’ora di lavorazione effettuata da un robot si ridue a 0,30 USD” (p. 85). Sin qui l’avvento della robotica ha fatto maturare il timore che uno sviluppo così concepito non risolva i problemi occupazionali e che sempre di più occorra impostare politiche attive del lavoro ovvero strumenti di sostegno al reddito nelle fasi di non lavoro. Tra i paradossi della nuova robotica, la tendenza, che Bianchi sottolinea, a disincentivare il fenomeno delle delocalizzazioni: “Molti rientri di produzioni da paesi dell’Est Europa verso l’area centrale europea si spiegano appunto con la possibilità di realizzare o beni ad alto prezzo e alta qualità in contesti di alta qualità delle competenze e delle dotazioni tecnologiche, o beni standard con linee fortemente automatizzate e quindi certe negli esiti qualitativi” (p. 86).

Al contempo si dà una divaricazione “fra mercati del lavoro protetti, per chi opera nella fascia delle competenze creative, e mercati del lavoro sempre meno tutelati, per i lavori routinari e instabili, delineando una nuova drammatica polarizzazione sociale che sta segnando l’intera società attuale” (p. 88). Non solo: “si sta sviluppando un comparto di lavorazioni a basso valore aggiunto, con condizioni contrattuali del tutto precarie, legate ad attività ripetitive e instabili, perché soggette a stagionalità o non prevedibili, che non giustificano investimenti in automazione né tanto meno in gestione delle risorse umane atte a valorizzarne le competenze, escluse da ogni tutela sindacale” (p. 92). Ed è su questo punto che dovrebbe porsi la riflessione aggiornata di una sinistra che voglia incidere nei processi, assolvendo alla propria funzione di correzione dei nodi strutturali della diseguaglianza nel rapporto tra capitale e lavoro.

Industria 4.0 non rappresenta semplicemente l’approdo a un nuova fase dello sviluppo tecnologico; in quanto fase più matura di un processo produttivo di lunga durata, è una diversa capacità di “coordinare” scienza, tecnologia, competenze e contesto sociale, “al fine di disporre della migliore capacità di far convergere tecnologie diverse ma complementari, per rispondere sia ai grandi temi globali che alle domande individuali di milioni di persone che ancor prima di essere clienti sono “cittadini” (p. 58). Rappresentando un nuovo quid qualitativo: una produzione personalizzata per quanto operante su grandi volumi adeguati ad un mercato globale e continuamente rinnovata attraverso un nuovo rapporto tra uomini e robot (p. 67). La “quarta rivoluzione industriale riporta al centro del sistema economico la produzione” (p. 104), ovvero una nuova tecnoscienza per lo sviluppo (p. 106).

Bianchi sottolinea come le sue riflessioni affondino le radici in un libro dei primi anni Ottanta, nello studio su Divisione del lavoro e ristrutturazione industriale (Bologna, il Mulino, 1984) e in una certa idea dell’esperienza del “modello emiliano” riletta senza compiacimenti. Di qui il tema dei distretti, ovvero quella “‘coscienza dei luoghi’ di cui ha trattato Giacomo Becattini anche nel suo ultimo lavoro, pubblicato nel 2015” (p. 67).

Chiudo riprendendo un ultimo spunto per una riflessione: “La parte trainante dell’industria a livello mondiale è oggi costituita da imprese (…) che solo trent’anni fa non esistevano e molte delle imprese che saranno dominanti nei prossimi trent’anni forse sono oggi start-up, cresciute all’ombra di università rivolte a generare ricerca anche non direttamente legata ad applicazioni immediate” (p. 94). Tra le imprese “che operano nel contesto gobale in quel particolare snodo della vita collettiva che oggi sono la produzione, intermediazione, gestione dei dati”, “nessuna ha le proprie origini, la propria sede operativa, il proprio “cervello” in Europa” (p. 104). E nella lista “degli innovator-leader disposta dal EPO non compaiono imprese italiane” (p. 88). Questo, al momento, il quadro, rispetto al quale si può misurare, senza pregiudizi, il grado di adeguatezza delle politiche messe in campo dall’attuale compagine di governo rispetto alle sfide in atto.

 

Marco Macciantelli

Allievo di Luciano Anceschi, dottore di ricerca in Filosofia, già coordinatore della rivista “il verri”, agli studi e alla pubblicazione di alcuni libri ha unito l'impegno politico di amministratore pubblico.