Non sono solito drammatizzare, immaginare irreparabili catastrofi, temere congiure. Sono anzi piuttosto ottimista e fiducioso, portato a credere che, prima o poi, a prevalere saranno la saggezza, il buon senso, l’intelligenza. Da qualche tempo queste mie fragili certezze vacillano. Ho paura.
Temo si stia più o meno inconsapevolmente precipitando verso un oscuro domani. Ai margini dall’Europa, dal mondo civile. In balia di un incombente autoritarismo. Abbiamo visto l’inguardabile. Un’inimmaginabile confusione di ruoli: un presidente del Consiglio opaco, invisibile, assente, latitante; per contro un segretario di partito-ministro dell’interno strabordante, invasivo, presente ovunque (salvo che al Viminale). Abbiamo ascoltato l’inascoltabile. Il Parlamento non conta assolutamente più nulla: “scegliamo i parlamentari con il sorteggio”, “l’obbligo flessibile”, “la pacchia è finita”, “è illegittimo ma non si può annullare”, “migranti palestrati”, “quando ero piccola per immunizzarci andavamo a trovare i cugini malati”.
Per non parlare dei vari commenti che si possono leggere sui social o a corollario di qualche articolo di giornale; nei quali insieme alla buona creanza è scomparso pure il semplice pudore. Vale la definizione che Silvia Braccini (“semplicemente un medico”, si definisce) scrive in una sua splendida lettera alla senatrice Paola Taverna: ha reso questo paese non più libero, ma oppresso dall’ignoranza e dalla cecità. E un paese non più libero, ma oppresso dall’ignoranza e dalla cecità fa paura.
Non penso che tutti, ma proprio tutti, siano beceri ignoranti fascistoidi (ho ad esempio apprezzato alcuni interventi del presidente Fico); purtroppo sono questi ultimi ad aver più ampia tribuna e maggior ascolto. Non è più nemmeno questione di appartenenza, di differenti concezioni della politica. A prevalere sono la mediocrità, l’arroganza, il dilettantismo. Persino il nazionalismo, a mio avviso esecrabile o quantomeno discutibilissima ideologia, si infrange nella mediocrità e nell’autoritarismo più bieco degli attuali protagonisti. “Un nazionalismo improvvisato, raffazzonato da gente che cerca dei capri espiatori anziché cercare soluzioni ai problemi”. È la definizione che prendo a prestito da un personaggio che non ha certo grosse chance di entrare nel mio personale pantheon: il recentemente defunto senatore John McCain. Un curriculum di tutto rispetto: sei anni di prigionia in Vietnam che non riesco nemmeno a immaginare nonostante la ricca filmografia statunitense (talvolta ho il dubbio che gli americani le guerre le facciano apposta per poterci dopo fare dei film); repubblicano, eletto due volte alla Camera e sei al Senato, due tentativi di scalata alla Casa Bianca, perde le primarie (e questo un po’ me lo rende simpatico) contro Bush e poi la Presidenza contro Obama; un tumore al cervello che non gli impedisce però di andare in Senato a difendere contro il detestato Trump la riforma sanitaria voluta da Obama. Chapeau!.
L’espressione di McCain mi è tornata alla mente nei recentissimi tragici giorni seguiti al crollo del ponte di Genova. Comprensibile la rabbia della città e delle vittime, sacrosanta l’esigenza di una giustizia rapida. Assolutamente fuori luogo la posizione assunta dai principali esponenti del Governo, solerti nell’indicare i responsabili (e chissenefrega della magistratura!), improvvidi nell’individuare soluzioni, incauti nel proporre ritorsioni, inavveduti nel coinvolgere un intero sistema. Capri espiatori da individuare al fine di inseguire la rabbia della gente, problemi che si complicano, soluzioni che si allontanano. Fatico a dirlo: ha ragione McCain.
Non mancano, per fortuna, persone e fatti che rappresentano una speranza. Stefano Vella che, contrario alla linea anti sbarchi lascia la presidenza dell’agenzia del farmaco “per sensibilità etica e deontologica”. Indignato, anzi decisamente incazzato; ma, dice, in questo Paese non basta indignarsi, non possiamo cavarcela con un tweet, occorrono gesti forti. Dimissioni. Immediate. Irrevocabili. Massimo Kothmeir, il comandante della “Diciotti”, che non deroga al suo dovere di salvare vite umane e gestisce con fermezza la situazione, impermeabile al bailamme che gli si scatena intorno. Luigi Patronaggio, il PM di Agrigento, che mette sotto inchiesta Salvini. Bene l’indipendenza della magistratura, subito aggredita dal ministro dell’Interno. Non credo servirà a molto, anzi, in tutta sincerità non confido molto nella lotta politica per via giudiziaria; potrebbe addirittura rivelarsi un vantaggio per Salvini. Comunque ora tutto è nelle mani del Tribunale dei Ministri.
Forse la speranza maggiore viene dalla mobilitazione della gente comune. Le tante persone che dimostrano solidarietà davanti alla nave ancorata in porto a Catania con il suo carico di disperazione, la folla in piazza a Milano a contestare Salvini che incontra Orban. E allora coraggio, l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa, ammoniva Franklin Delano Roosevelt.
Ma che fare? Combattere? Scendere nella mischia e avvoltolarci nel fango come maiali (ricordate Montanelli?) in una inconcludente rissa continua? Arroccarci sull’Aventino, nella convinzione che “adda passà a nuttata”? Stringerci tutti insieme nell’erronea illusione dell’uniti si vince in una grande coalizione pronta a sfaldarsi al primo stormir di fronda? Rinchiuderci nella certezza dei nostri principi in difesa di una purezza di ideali con il rischio di ritrovarci in un’allegra congrega di reduci nostalgici? Inondare i social di petizioni e raccolte firme? Stipare le caselle di posta di amici e parenti (come faccio io) di autoreferenziali riflessioni?…
Una nutrita serie di opzioni che necessitano di un’ immersione nella realtà, in quella realtà che dobbiamo saper affrontare se ne vogliamo risolvere le evidenti storture. E i dati di realtà sono parecchi e parecchio inesplorati. Primo tra tutti un popolo che ci è sempre più distante, che continua a percepire come avversari tutti coloro che, a torto o a ragione, sono considerati complici di quel sistema che oggi qualcuno promette di distruggere. Che ci riesca o meno è tutto da vedere, per ora applausi a scena aperta. E qui l’affare si complica. Bella la lettera di Veltroni con la messa in soffitta del “renzismo” (allora non aveva tutti i torti chi già cinque anni fa riteneva che “la parola rottamazione non fa parte della nostra cultura”). Interessante pure la replica di Padellaro a ricordare che probabilmente molte idee e principi di e della sinistra sono oggi appannaggio del M5S; che oggi la dicotomia è tra umani e disumani più che tra destra e sinistra.
Sapessi che fare lo farei. Avessi la ricetta la diffonderei immediatamente. Credo sarà un percorso lungo e accidentato, con un complicato approccio ai problemi. Inefficaci le scorciatoie (“cambiamo nome al Pd!”), sterili i pentimenti tardivi. Anziché una guerra a colpi di insulti, che peraltro ci vedrebbe soccombere, occorrerà una progressiva e tenace affermazione di temi e proposte concrete, talora in netta contrapposizione, talora come sfida. Una sfida al Governo con proposte realistiche, fattibili, alternative (siamo o no all’opposizione?!) specie su quei temi più congeniali alla sinistra.
Talvolta sarà molto, molto difficile, ma occorrerà farlo, sfidando anche l’impopolarità, come nel sostenere gli Stati Uniti d’Europa, un tema che non gode certo di grande popolarità. Una grande attenzione alle future alleanze, agli accordi; incombono elezioni locali, regionali, europee… Concretezza nell’azione e nelle proposte, fermezza e confronto sulle idee, attenzione alla comunicazione. In questi giorni era in Italia Pepe Mujica, l’ex tupamaro, l’ex presidente dell’Uruguay, un’icona della sinistra, che ricordo con la spilla di LeU sulla camicia. Ha incontrato Beppe Grillo. Mi auguro in tutta sincerità non si arrivi mai ai momenti bui che questo paese dalla memoria labile ha già vissuto. La democrazia è creatura fragile, per nulla scontata, va difesa, sostenuta, coltivata, curata con attenzione. Per questo ho paura, per questo occorre coraggio.