Hikikomori, la maledizione di Nietzsche nella vita dei nostri figli

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Lorenza Castagneri è una giornalista del Corriere cui va il merito di esser stata fra le poche voci che hanno cercato di diffondere consapevolezza su di una emergente piaga sociale (con casi raddoppiati dal 2014 in termini di azioni del Reparto di Neuropsichiatria infantile dell’ospedale Regina Margherita di Torino) che va sotto il nome di hikikomori.

Sembra una piaga che viene da oriente, e invece altro non è che la maledizione di Nietzsche che continua ad interpellare la città e tutti i suoi abitanti, e con essi il mondo intero.

Sì, perché gli hikikomori altro non sono che adolescenti che guardano negli occhi tutta la tragicità della condizione umana.

Questi ragazzi che rifiutano di uscire dalla propria camera in cosa sarebbero diversi dai coetanei che (sempre più nel mondo) chiedono venga loro riconosciuto un diritto al suicidio? Quale differenza con quelli che dalla vita escono già pur rimanendo nel corpo, sballandosi di ogni cosa che non fa pensare, che non fa accogliere la realtà di un mondo in cui perfino Harry e Meghan dicono che più di due figli non ne fanno (per l’ambiente, ovvero siamo troppi sulla terra, ovvero bravo a chi lascia spazio e li lascia trattare come scarto di un sistema che mangia se stesso).

Se lo dice la Montalcini che c’è un “rischio di estinzione della specie umana”, se ce lo dice Greta, se pure Zagrebelsky ci dice che il pensiero dominante (dunque il mondo là fuori)  è un uroboro, mostro antico che mangia se stesso, perché uno non dovrebbe chiudersi nella propria cameretta?

Per amore di mamma e papà? Perché è bene essere utili alla società? Perché siamo responsabili davanti ai bambini dell’Africa che sono morti di fame mentre con il cibo che avrebbe potuto salvarli noi pensiamo di permetterci il lusso di essere depressi?

San Francesco e tutti i grandi eremiti hanno testimoniato che queste non sono ragioni sufficienti.

Che differenza c’è allora fra un eremita e questo prodotto sociale che, anziché chiamarlo come i giapu, dobbiamo riconoscere essere il frutto finale di un mondo in declino?

Il primo aveva ancora accesso al lusso di esperire la natura, di stupirsi davanti ai panorami incontaminati, alla mutevole carnalità della natura. Il secondo vive nel buio delle tapparelle abbassate, attaccato alla luce artificiale di uno schermo.

Al primo però noi tributiamo incensi, come onori diamo ai grandi luminari che ci spiegano tutte le ragioni per essere più che depressi, mentre il secondo (che va riconosciuto più come un fratello d’Italia che un alieno-hokikomori) lo mettiamo un mese in reparto (senza saponi né tende per la doccia, per prevenire episodi di suicidio).

E’ fermarsi a guardare questo che fa impazzire Nietzsche: il mondo che si perde (suonando sul Titanic della comunicazione e delle apparenze), mentre la paura del collasso porta tutti a coltivare il loro piccolo orticello, lucidare il pomello della porta della loro cabina per consegnarlo lindo agli abissi.

Come comprendere allora questo fenomeno, umano prim’ancora che sociale?

I modi di capire dipendono dai modi in cui pensiamo, dalle prospettive che assumiamo.

Poniamo ad esempio di adottare un approccio materialista e marxista.

L’hikikomori altro non è che lo scarto del sistema, il sottoproletario che non spera nel cambiamento perché ancora non ha visto la possibilità della lotta di classe e dell’avvenire che lo attende.

Dopotutto il capitalismo non vuol dire solo contare soldi.

Il capitale di una famiglia dipende sì dalla quantità di beni tangibili (mobili o immobili) che possiede; esso però dipende soprattutto dal capitale intangibile (relazionale, culturale, sociale, spirituale, cognitivo, emotivo, relazionale).

Se hai i soldi, allora a tuo figlio depresso paghi i migliori precettori, lo fai vestire dal sarto e gli dai ogni confort che il “fatto a mano/haute couture” possa comprare (dai vestiti alla gastronomia, fino agli svaghi e alle attività filantropiche condivise), oppure come pensi che possa sopravvivere se ha aperto gli occhi e vede la realtà meglio di tanti altri?

E’ vero: la casa non sarà mai grande abbastanza se l’unico senso nella vita è quello di finire di pagare il mutuo.

Se però uno ti dice che non sei il primo a vederla così, che pure Caligola “voleva la luna” e che la questione è dunque quella di discernere fra volere e potere, fra essere e sembrare ecco che risponde veramente alle tue esigenze di verità più intime (quelle che poi ti portano a non voler uscire).

Questo però te lo puoi permettere solo se la tua famiglia ha mantenuto una certa dieta culturale, spirituale, relazionale. Solo se ci sono amici filosofi e artisti, solo se i piccoli sono esposti ad un villaggio di esperienze gli si può dire: stupiamoci insieme della bellezza del creato, cercando insieme il mistero della vita.

Senza questa estroversione verso l’Essere nessuna famiglia può sopravvivere, se non a costo di “nutrirsi di altre famiglie”: di quella della badante della nonna (cui, per qualche centinaio di euro al mese, togliamo pezzi importanti di vita insieme), di quella dei raccoglitori di arance che ci permettono di pagarle così poco al mercato, e via discorrendo fino al punto che la prole non è riconosciuta come persona ma come tassello (piccolo ingranaggio di un sistema familiare e mondiale alienato e alienante), come un oggetto e non come un volto  nel cui sguardo intravvedere l’infinito.

Solo una fede che sia sì ragionevole ma che sappia anche aprire alla ragione nuovi orizzonti può aprire la porta dell’anima giustamente ferita dalla bruttezza del mondo.

E’ finito il tempo in cui bastava illudere i bambini con babbo Natale prima e coi regali in cambio di buoni voti poi. Oggi i giovani vedono il futuro in modo più lucido dei genitori, e se ne trovano spesso inascoltati.

Come Nietzsche vedono gli effetti del materialismo, il disfarsi del concetto di persona in una singolarità di plastica, scambiabile (per cui qualche morto nel Mediterraneo in più e qualche nascita in meno sono buone notizie, perché almeno possiamo tutti consumare non troppo meno e mandare a scatafascio gli ecosistemi un tantino in più). L’uomo è un insieme di funzioni oggi: il più performante vince.

E se uno sa di aver perso in partenza, o che avendo vinto in partenza dovrà consegnare ai suoi figli un mondo in cui fame e guerre cresceranno, come fa a continuare a vivere?

La filantropia, anche nelle sue forme più abusate e deturpate, è il viatico che, morto Dio, le grandi famiglie capitaliste (dai Rockefeller ai Gates) lasciano ai propri figli, per prevenire ciò che poi porta altri a non uscire dalla loro cameretta. “Il mondo fa davvero paura”, possono permettersi di ammettere tali augusti genitori ai propri piccoli, “tu nasci col salvagente e, se vuoi sentirti bene, puoi fare tanti bei progetti di beneficenza nei villaggi africani con i soldi di mamma e di papà”. Non si può dare la vita unicamente per questioni di forza maggiore, perché altrimenti si interromperebbe una storia ereditaria di cose: serve uno scopo, un ideale (o almeno la sua apparenza, con tanto di galà di beneficenza, nastri e lustrini).

Come pensate che i figli di alcuni ricchi (quelli ricchi per davvero, dunque non solo di soldi) sopravvivano alle stesse angosce che attanagliano tutti i loro coetanei, poco sposta poi cosa ne facciano (attivismo come Greta o introversione come gli hikikomori)?

Il problema viene quando neanche la filantropia serve più a dare gusto alla vita (divenuta sciapa di senso come il cibo di autenticità). Questo è il lusso che i soldi non possono comprare e che permette, ad esempio, alle famiglie francesi bene confrontate con i medesimi problemi di poter offrire ai loro figli un anno di vita con altri coetanei, studiando filosofia, teologia e antropologia, in un ambiente in cui tutto è arte ed il canto è parte delle attività proposte.

Queste terme per l’anima non esistono però in Italia, non sono accessibili a chi non parla francese e non prima di aver atteso i vent’anni per porsi le grandi domande della vita.

La riprova che si scrive hikikomori ma si legge “figli tristi di una società in declino”.

Sapremo noi portare l’antidoto da oltre le Alpi, o dovremo contentarsi di menarla con Croce e Habermas ancora a lungo? La risposta dipende da noi, anzitutto dal modo in cui sapremo incarnarci veramente alla vita, non avere paura di guardare con Nietzsche nel buco nero (ecologico e di significato) che sta oltre la “fine della storia” (per citare un concetto più volte ripreso anche da Massimo D’Alema).

Per farlo però serve una fede, ed una fede ragionevole posto che gli hikikomori (non diversamente da Greta) portano obiezioni di sistema.

Gabriele D'amico

Torinese, avvocato, appassionato di diritto ed economia della cultura, dottorando fra Berlino e Gerusalemme in diritti umani e diversità culturale. Consapevolmente olivettiano, credo nella capacità umana di superare la gregarietà del sistema limbico e ragionevolmente spero in un futuro di sviluppo umano integrale.