Gli errori di Macron e gli altri segnali che arrivano dalle urne francesi

| Esteri

Il voto francese cambia in ogni caso la geografia politica europea. Anche una nuova vittoria, necessaria come non mai, di Emmanuel Macron non potrà non essere un nuovo inizio. Perché mai come oggi la République fa i conti con una crisi di status che ha risvegliato un nazionalismo che è radicato in più di un terzo della popolazione. E si insedia nella parte più sofferente, i perdenti del processo di integrazione europea. Ecco alcune considerazioni sul voto di ieri e perché non va sottovalutato da nessuno, nemmeno da noi.

1. Il secondo turno non sarà una passeggiata. Macron è largamente favorito, il fronte repubblicano regge sulla carta per la quasi totalità dei candidati contro l’estrema destra (eccetto Zemmour e i trozkisti, che tutti insieme racimolano quasi il 9 per cento), ma il ballottaggio è sempre una partita a sé. Il contatore non si azzera, ma la campagna elettorale non è mai una strada in discesa per nessuno. E Macron non può sbagliare nulla. Un sondaggio di una settimana fa raccontava che il 66 per cento dei francesi vuole cambiare il Presidente, la somma dei candidati orientati a uscire dalla Nato – ancora oggi, con una guerra in corso – è superiore al 60 per cento, la geografia sociale del voto schiaccia la proposta riformista di Macron su un’area benestante dell’elettorato, molto meno diffusa rispetto a cinque anni fa. Quindi bisognerà combattere fino all’ultimo istante, la cautela è d’obbligo.

2. È stata una volata lunghissima quella che ha condotto all’esito del 10 aprile. E i nastri di partenza erano diversi. A sinistra Mélenchon un mese fa era dato tra l’8 e il 10. È finito al 22, polverizzando socialisti, verdi e comunisti e recuperando sull’astensione, lambendo persino un pezzo di voto macroniano. La Pécresse, candidata della destra repubblicana, un mese fa appariva competitiva per il secondo turno, ma alla fine è stata largamente asciugata dal camaleontismo di Macron – che cinque anni fa aveva fatto un’operazione analoga sul versante socialista – e in parte insidiata anche dalla moderazione di Le Pen. Sul versante nazionalista, sembravano destinati ad essere appaiati Le Pen e Zemmour, mangiandosi l’un l’altro fino a elidersi. Alla fine la prima è apparsa più affidabile e strutturata e ha ridimensionato il secondo, nonostante la vivacità televisiva da giornalista. Insomma, il voto utile l’ha fatta da padrone. Gli elettori hanno scelto chi poteva competere per la presidenza. Solo 4 candidati superano il 5 per cento – soglia decisiva per accedere ai rimborsi elettorali – di cui tre sopra il 20. Non era mai accaduto: il primo turno era da sempre un rifugio per il voto identitario, dove ciascun elettore dava la preferenza a chi gli era più vicino senza badare molto alle conseguenze nelle urne. È cambiato tutto. La torsione maggioritaria è stata potentissima e inesorabile. Nessuno dei primi tre ha un “suo” presidente di Regione, un sindaco di grande città né un presidente di provincia: interessante constatare che invece i partiti sconfitti e sotto il cinque per cento – in particolare socialisti, verdi e destra repubblicana – ormai sono rappresentati solo da eletti locali. Uno scarto inedito e che deve interrogare anche l’Italia

3. Le Pen prevale su Zemmour per due motivi. Innanzitutto, è apparsa più centrista, capace di cancellare le tracce di un passato anche recente di collateralismo con regimi autoritari, Putin compreso, meno scatenata sul terreno dell’opposizione ai diritti civili e all’immigrazione clandestina. Allo stesso tempo, ha puntato tutto sul voto popolare con un programma social-protezionista, parlando a una Francia profonda che ha creato i gilet gialli, figli della frattura centro-periferia e anche di una transizione ecologica non governata. Zemmour invece si è presentato come un novello maresciallo Pétain: autoritarismo strisciante e xenofobia dichiarata, nazionalismo aggressivo e omofobia accentuata. Ma le ricette proposte sull’economia sono state ultraliberali e dunque concorrenziali con il ceppo gollista. Un impasto destinato a durare: d’altra parte impressionavano le adunate giovanili presenti ai suoi comizi. Non erano le periferie della Le Pen, ma la nuova borghesia reazionaria dei centri urbani priva dei riferimenti tradizionali. Per la prima volta un blocco di due milioni di voti che chiameremmo moderati sceglie la destra radicale. Una rivolta di un pezzo di establishment: teniamola a mente per il futuro.

4. Mélenchon aveva già sfiorato il ballottaggio cinque anni fa, contendendo le periferie sociali all’estrema destra e mobilitando milioni di voti delusi dal fallimento della presidenza socialista di Hollande. Un animale strano, Mélenchon: mitterrandiano gauchista con un passato trozkista, ministro socialista della scuola con Jospin, infine aggregatore della sinistra fuori dal classico seminato socialdemocratico. Mi sembra troppo semplificata la lettura di queste ore sulla sua natura di radicale e populista. Sicuramente rappresenta una sinistra molto diversa da quelle continentali, con una diffidenza verso il processo di integrazione europea consolidata, per quanto abbia abbandonato da tempo la contrarietà all’Euro. Syriza e la Linke non hanno mai civettato con il sovranismo, ad esempio. La grande stampa aveva provato ad appiccicargli addosso l’etichetta di amico di Putin per le sue note posizioni antiatlantiste e terzomondiste, ma Mélenchon è stato abile a schivarle, evitando di attaccare Macron sulla condotta del (purtroppo ad ora fallimentare) negoziato diplomatico e sostenendo senza esitazioni la resistenza ucraina. Mélenchon non va al ballottaggio per un punto e mezzo, meno di mezzo milione di voti. Espande il suo elettorato alle fasce giovanili, nettamente il primo sopra Macron e Le Pen, recupera nel voto dei cittadini di seconda generazione della banlieue francese costruendo una campagna contro l’islamofobia (vera o presunta) crescente, mobilita intellettuali e artisti, ecologisti e movimenti sociali territoriali. L’errore è aver puntato soltanto sulla sua forza carismatica, poco incline invece a costruire alleanze o a tenerle insieme per un tempo duraturo. I comunisti cinque anni fa erano con lui: quel 2,4 per cento di Roussel probabilmente è la causa del mancato ballottaggio perché da Verdi e Socialisti l’Union Populaire ha preso tutto quello che poteva prendere. Tuttavia quel patrimonio elettorale ora deve decidere come spenderlo. Che avrebbe dichiarato così nettamente contro la Le Pen non lo dava per scontato nessuno, anche perché il suo elettorato è da sempre molto sulla frontiera. Credo che questo sia un messaggio a tutti: sono pronto a diventare il rassembleur di tutta la sinistra e provare a capitalizzare per le legislative che si faranno un mese dopo il secondo turno delle presidenziali. Tra cinque anni si vedrà. È vero che Mitterrand ci provò due volte prima di diventare presidente, Lula addirittura quattro. Ma è difficile immaginare un altro tentativo per ragioni innanzitutto anagrafiche. Più probabile che Mélenchon provi a mettere in campo una nuova Epinay, superando la sua naturale tendenza all’isolamento identitario, e promuova una nuova generazione. Vedremo.

5. Il saldo del quinquennio di Macron non può essere considerato positivo. Ha acceso fuochi più che spegnerli. Il suo liberalismo estremo è fuori dalla tradizione francese, anche a destra profondamente legata alla dimensione dello Stato interventista. Non si era mai visto un Presidente con un’opposizione sociale così diffusa: dai gilet gialli agli insegnanti, passando per gli immigrati e i lavoratori tradizionali. La pandemia ha frenato i conflitti sociali, anche perché Macron ha scelto in quel passaggio una politica interventista e di sussidi da far impallidire gli altri paesi europei, con buona pace delle polemiche stupide fatte da Confindustria ai tempi del Governo Conte. Tuttavia, pur partendo favoritissimo e con sondaggi che lo davano oltre il 30 per cento, anche per la naturale stabilizzazione che la pandemia e poi la guerra portano sempre con sé, ha sbagliato campagna elettorale. Ha tirato fuori un ricettario liberista che ha irritato milioni di persone: dalla pensione a 65 anni all’aumento dell’orario di lavoro, dal ridimensionamento dell’equivalente del reddito di cittadinanza fino alla proposta di ingresso dei privati nel sistema scolastico. Ha preso un voto prevalentemente urbano e molto anziano sul piano anagrafico. In Italia lo chiameremmo il voto della Ztl. Ieri sera nel commentare a caldo il voto ha lanciato finalmente un messaggio di appeasement a sinistra, provando ad assumere i temi di Mélenchon e annunciando proposte nuove rispetto agli anni precedenti. Non credo riuscirà a recuperare tutto il voto di sinistra, ma la campana questa volta ha suonato in maniera potente e non si può più sbagliare. L’unità contro l’estrema destra è sempre più difficile rispetto al passato, anche per l’indebolimento dei corpi intermedi, di cui Macron porta responsabilità non secondarie.

6. Macron deve vincere a tutti i costi. In gioco c’è la Francia e la sua democrazia, ma anche un’idea di autonomia strategica dell’Ue che, pur tra mille contraddizioni, il presidente francese ha portato avanti. La guerra cambia tutto e la prima vittima rischia di essere la dimensione politica dell’Europa. Le letture piegate sulla cucina di casa nostra hanno poco senso. Analogie ce ne sono ovviamente: il voto antiestablishment, pur con attori profondamente diversi, somiglia molto a quello di casa nostra del 2018. La spia di una crisi economica che non è passata e che invece troppo facilmente è stata messa sotto il tappeto anche dall’analisi della sinistra più tradizionale. D’altra parte, se la somma tra Le Pen e Zemmour è poco sopra il trenta, quella tra Salvini e Meloni è addirittura quasi al quaranta. Nessuno può dirsi dunque tranquillo. La lezione che possiamo ricavarne è che stavolta non basterà l’appello antifascista per fermarli e forse nemmeno una nuova tecnicalità elettorale. Serve una rifondazione più forte e radicale del campo progressista, perché è la crisi della democrazia come strumento di emancipazione sociale che scatena il nazionalismo, non l’opposto. E qui la Francia parla davvero all’Italia.

Arturo Scotto

Nato a Torre del Greco il 15 maggio 1978, militante e dirigente della Sinistra giovanile e dei Ds dal 1992, non aderisce al Pd e partecipa alla costruzione di Sinistra democratica; eletto la prima volta alla Camera a 27 anni nel 2006 con l'Ulivo, ex capogruppo di Sel alla Camera, cofondatore di Articolo Uno di cui è coordinatore politico nazionale. Laureato in Scienze politiche, ha tre figli.