Gifuni riporta in vita le parole di Moro. E il silenzio di chi non ha ascoltato

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Da che parte cominciare? Sul tavolo ci sono le Lettere dalla prigionia di Aldo Moro e il Memoriale, ovvero le risposte che il presidente della Dc diede al processo delle Brigate rosse. In scena c’è Fabrizio Gifuni dietro a un leggio. A terra fogli sparsi in formato A4, segno di un lavoro passato a ricomporre frammenti, a lato un tavolino anch’esso ingombro di pagine e intorno una delimitazione evidente di campo ad annunciare che si sta varcando una soglia. Nient’altro. Eppure i suoi interlocutori prendono corpo. La moglie, i familiari, i vertici del governo e della Dc. Zaccagnini, Cossiga, Leone, Fanfani, Andreotti. Persino Paolo VI. Di alcuni vediamo quasi  le facce, sentiamo la pochezza o la disperazione, il cinismo e l’ipocrisia, l’impotenza e lo strazio e immaginiamo l’espressione sorniona, cattiva, nascosta dietro gli occhiali sulla punta del naso.

E allora comincio da qui. Gifuni affronta questa lettura da attore di razza, che non si risparmia, non si accontenta, non si assicura dietro parole già di per sé forti e chiarissime. Ne prende parte, vi si avvicina dopo avere ascoltato e compreso con la testa e col cuore, e le restituisce con  la sensibilità che lo porta a differenziare i destinatari nei colori e nei toni.

Così la lettura si fa di volta in volta amorosa e accorata come nelle lettere alla moglie Eleonora – “cara Noretta” –  oppure ringhiosa e a denti stretti, ironica, sarcastica, rassegnata e profetica. E arriva come accusa inflessibile ai dirigenti del suo partito, e non solo.

“Io sono il prigioniero politico ma sotto accusa è l’operato di un’intera classe dirigente”.

La classe dirigente che ha sacrificato un innocente trincerandosi dietro la ragion di stato, tra linea dura e sedute spiritiche. Manipolandone senza scrupoli coscienza e volontà, insinuando che fosse costretto, ricattato, drogato, tirando in ballo persino la sindrome di Stoccolma.

Com’è possibile. Com’è possibile che parole tanto lucide e precise, ragionamenti cristallini, riferimenti chiari a nomi, situazioni, circostanze, possano essere stati equivocati neutralizzati, scherniti?

Com’è possibile che la resistenza di un uomo allo stremo che filtra così prepotentemente dalla scrittura non abbia suscitato nessuna pietà, ma solo “il vostro irridente silenzio”, la “vostra mistica inerzia”?

“Possibile che siate tutti d’accordo a volere la mia morte…  Non ho sentito emergere voci di dissenso dalla linea dura che qualcuno lividamente vi suggerisce”.

Il lavoro di Gifuni si situa su due livelli incrociati che dialogano costantemente tra loro. Quello dell’emotività che passa non solo dalle parole ma dal ritmo che accelera quando la situazione precipita, perché non c’è più tempo, perché “siamo all’ora zero”, perché “ l’atto di coraggio” invocato come estrema richiesta di aiuto in una delle ultime lettere a Benigno Zaccagnini, resta inascoltato, e quello dei contenuti, che poggia sul lavoro di  ricostruzione di lettere e memoriale da parte dell’archivio di Stato, di Miguel Gotor e Christian Raimo, e dell’attenzione di Francesco Maria Biscione.

Al teatro il compito  di diffondere attraverso il corpo e la parola detta, la potenza di un pensiero rimosso, troppo presto liquidato, confuso tra i cavilli del ‘caso Moro’, spesso inutili nella sostanza, addirittura sepolto insieme alla vittima, incrociando le dita perché nessuno ne torni a parlare.

Errore. Se aveste letto e ascoltato lo avreste saputo. Dovevate aspettarvelo.

Le parole di Moro infatti trascendono il caso Moro e mentre testimoniano di un carattere rigoroso e appassionato, aiutano a fare chiarezza su gran parte di storia italiana.

Piazza Fontana: “non ho mai creduto alla pista rossa”. Gli aiuti della Cia e i finanziamenti alla Dc, che coinvolsero anche De Gasperi. Andreotti a banchetto con Michele Sindona. La stampa e il monopolio dell’informazione in mano a cinque testate di un unico gruppo. Le strategie di guerriglia della Nato. Il caso Gladio e il ruolo di Paolo Emilio Taviani. Il patto segreto tra i nostri 007 e i fedayyin palestinesi per evitare attentati in Italia.

Arriva a noi anche la sua stessa ammissione di colpa, e arriva attraverso le parole rivolte ad Andreotti. “Io avrei potuto vedere ma ho preferito non guardare e mi sono sforzato di stare con lei”.

Moro non risparmia nessuno e non si censura. E il tono delle ultime lettere è quello di una disperata invettiva.

A Zaccagnini scrive “moralmente sei tu al mio posto”, e al partito tutto profetizza un “ciclo più terribile di questo e ugualmente senza sbocco”.

Che dire.

Fabrizio Gifuni era a Roma al teatro Vascello la scorsa settimana, ma ha promesso una ripresa. Sarebbe anzi un bene che la tv di stato lo mandi in onda più di una volta in orari differenti.

Alessandra Bernocco

Giornalista, laureata in filosofia, ama scrivere e cucinare. Da sempre appassionata di teatro, ha insegnato storia del teatro e collaborato come critico a vari periodici tra cui Europa, L’Unità.tv, Multiversi, Dramma e Oltrecultura. Ha pubblicato Suite Bohémien (Robin) e Bip. Il rumore del tempo sospeso (Dialoghi) Si sfoga sul suo blog, Verba manent.