Fine vita, adesso una legge ci vuole. Fuori il coraggio, via i tabù

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Io sono per una legge sul Fine Vita.
La politica non può girarsi ancora una volta dall’altra parte davanti a chi preme per alleviare la prepotenza del dolore.
Ricordo nitidamente la commozione generale che accompagnò tra il 2015 e il 2016 la storia di Max Fanelli, uno psicologo sociale affermato nonché militante di Emergency in Africa, che dopo anni costretto alla paralisi dalla SLA, aveva lanciato un appello alle istituzioni – annunciando di voler rinunciare alle terapie e alla alimentazione forzosa – per accelerare una soluzione legislativa.
Dalle Marche Lara Ricciatti e l’associazione Luca Coscioni avevano sottoposto a tutti noi questo caso e soprattutto il coraggio enorme di quest’uomo, che attraverso la sua voce artificiale e l’unico occhio che muoveva sapeva parlare all’Italia e alle sue contraddizioni aperte.
Nella scorsa legislatura da Presidente del Gruppo parlamentare di Sel riuscii a far calendarizzare dalla Conferenza dei Capigruppo il primo testo di legge sul fine vita.
Non era mai accaduto che se ne discutesse in commissione.
Era una materia da sempre rimasta seppellita nei cassetti, dove si ammassavano disegni di legge mai affrontati e ovviamente mai votati.
Non presentai il testo firmato dai deputati del mio partito, ma quello scritto da un’intergruppo parlamentare – promosso da molti deputati di tutti gli schieramenti – dal Pd a Forza Italia, dai Cinque Stelle agli indipendenti – e presieduto dalla coraggiosa deputata socialista Pia Locatelli e da Mina Welby.
Non mi interessava piantare una bandierina, ma far avanzare insieme ad altri una battaglia di civiltà.
Non raggiungemmo l’obiettivo.
La legge si arenò, tuttavia avevamo aperto una piccola breccia nel silenzio assordante di una politica irresponsabile.
Non fu un caso, che mentre la legge sul fine vita arrancava, riuscimmo a varare il Testamento Biologico, con il concorso di un ampio ventaglio di forze politiche.
Un passo in avanti non scontato.
Tuttavia, nel nostro paese un dibattito senza pregiudizi ideologici sull’eutanasia è sempre stato un tabù.
Eppure qualcuno dovrà spiegare prima o poi perché non si possa scegliere almeno come morire, nel momento in cui per tutta la vita ti dicono come vivere gli affetti, come lavorare, come produrre, come consumare.
Ho grande rispetto per chi ha dei dubbi.
Ne coltivo tanti, tantissimi anche io.
Il confine tra diritto e arbitrio è sempre molto labile.
Ma sono convinto che su questi nodi, la bussola sia sempre la libertà delle persone e non lo stato etico.
Per questo ho trovato importante la sentenza della Corte Costituzionale.
Indica una strada e chiede di riempire un vuoto legislativo non più rinviabile.
Il parlamento faccia quello che non ebbe il coraggio di fare qualche anno fa.
Soprattutto, guardi con gli occhi del pragmatismo una situazione che va finalmente sanata.

Arturo Scotto

Nato a Torre del Greco il 15 maggio 1978, militante e dirigente della Sinistra giovanile e dei Ds dal 1992, non aderisce al Pd e partecipa alla costruzione di Sinistra democratica; eletto la prima volta alla Camera a 27 anni nel 2006 con l'Ulivo, ex capogruppo di Sel alla Camera, cofondatore di Articolo Uno di cui è coordinatore politico nazionale. Laureato in Scienze politiche, ha tre figli.