Berlusconi

Dialogare ok, ma allargare la maggioranza a Forza Italia che senso ha?

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L’appello di Mattarella alla collaborazione istituzionale è sacrosanto. Un grande paese nella fase più acuta della crisi pandemica non lavora per alimentare divisioni: prova a mettere a terra tutti gli strumenti per abbassare il livello di tensione politica, innanzitutto nel rapporto tra centro e periferia e nella costruzione di un’agenda parlamentare condivisa.

Dunque, serve una nuovo spirito di solidarietà nazionale, perché il virus è una sfida per tutti e non si affronta, si combatte e si sconfigge con l’esasperazione dei posizionamenti. A una situazione eccezionale si risponde dunque con novità eccezionali.

Quando nel 2015 ci furono gli attentati islamisti in Francia e sembrava che l’emergenza potesse allargarsi in tutta Europa, compresa l’Italia, il governo allora presieduto da Matteo Renzi – a cui non ho mai votato la fiducia in Parlamento, e lo rivendico – istituì una cabina di regia con i capigruppo di ogni schieramento per monitorare scelte e costruire orientamenti comuni sulla lotta al terrorismo. Fu una scelta opportuna e non aveva l’ambizione di sostituire né il Copasir né le commissioni parlamentari, senza confondere ruoli e funzioni.

Un modello di confronto permanente sarebbe a maggior ragione utile oggi, sotto la regia di Palazzo Chigi, anche per stanare chi immagina di poter giocare con l’emergenza a fini elettoralistici. Da giorni, tuttavia, è aperto un dibattito sui giornali in merito all’interlocuzione con un partito di opposizione in particolare, collocato nel centrodestra, e che ha un nome e cognome: Forza Italia.

Lungi da me riesumare un giudizio che la storia si è già incaricata di dare su cosa abbia rappresentato il berlusconismo per questo paese. E di quanto, ogni volta che ci siamo avvicinati al Cavaliere, lo scorpione ha finito per morderci e farci male. Se dovessi fare soltanto i conti con il mio temperamento, suggerirei vivamente di non tornare sul luogo del delitto.

Il punto infatti è l’Italia di oggi: un eventuale allargamento della maggioranza – o semplicemente una cooperazione rafforzata per usare un termine forse più congruo – con i berlusconiani da cosa scaturisce? È figlio di una diversità di toni con la destra sovranista? È frutto di una convergenza valoriale su alcuni principi, a partire dall’europeismo? Deriva da una condivisione di fondo sulle ricette economiche e finanziarie che il paese deve adottare?

Certo, un innesto azzurro darebbe maggiore respiro sui numeri parlamentari al Senato, eviterebbe che ciascuna formazione politica possa usare i propri voti per far valere un potere di ricatto su ogni singolo provvedimento.
Lo capisco e non mi scandalizza. Eppure, il tema mi sembra un altro, perché non si può morire di contingenza. Quale sarebbe il respiro strategico di un eventuale esecutivo allargato con un pezzo di centrodestra? Ma soprattutto per fare quali scelte, portare avanti quali riforme? Qui c’è il buio assoluto, se non generici appelli alla responsabilità.

Attenzione, perché quando si avviano complesse manovre parlamentari, la reticenza sui contenuti può sfociare nel politicismo. E quando prevale il politicismo, i populisti suonano le campane a festa.

Per me il dialogo con l’opposizione o con alcuni settori di essa va aperto – e rapidamente – sul sistema delle garanzie, a partire dalla legge elettorale. Non mi hanno mai convinto norme che riguardano le regole del gioco democratico votate a maggioranza se non addirittura con la fiducia, come accadde nella scorsa legislatura. Sul resto, consentitemi qualche legittima prudenza in più.

Se la pandemia – come sosteniamo da tempo tutti nei convegni – rappresenta uno spartiacque rispetto agli ultimi trent’anni, forse servirebbe rafforzare una griglia di idee nuove e non riportare in campo i sostenitori del sempreverde refrain “meno tasse per tutti”. E allora – se siamo tutti d’accordo – andrebbe costruita un’agenda vera per la fase nuova che si apre, perché è cambiato tutto.

Il vertice dei segretari di maggioranza con il Presidente Conte deve diventare l’occasione per trasformare una coalizione emergenziale in una alleanza strutturale. Significa archiviare definitivamente il moderatismo neoliberale che ha accompagnato l’Italia e l’Europa per una lunga fase, di cui Silvio Berlusconi è stato uno dei protagonisti assoluti. Mi sembra singolare che ce lo debba ricordare Emmanuel Macron, che in Italia sembra avere tantissimi aspiranti epigoni evidentemente incapaci di usare persino il traduttore automatico sulle sue interviste.

Ce lo spiega persino il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, che prova a lanciare la palla un po’ più in avanti sulla grande questione dell’azzeramento del debito pandemico, che rischia di consegnare le generazioni future a un destino drammatico, e sulla riforma del Meccanismo europeo di stabilità.

Serve un rapporto più equilibrato tra stato e mercato – che non vuol dire automaticamente salvare le aziende di famiglia – e dunque un potere pubblico che torna a programmare investimenti, a fare politiche industriali, a guidare la transizione ecologica e digitale. Occorre un’operazione di estensione e di rafforzamento di beni comuni fondamentali, che l’indebolimento dello stato ha ridotto ai minimi termini: sanità in primis. Vuol dire scegliere tra la scommessa della medicina pubblica di prossimità e il modello privatizzatore della Lombardia. Va introdotto un sistema di tutele del mondo del lavoro rafforzate, a partire da una legge sulla rappresentanza che spazzi via la giungla di contratti capestro che ha precarizzato e frantumato il mondo della produzione e che – una volta superato il blocco dei licenziamenti – può portare a una catastrofe occupazionale senza precedenti.

Va varata una riforma equa del fisco – le risorse finalmente ci sono – che sia orientata nella direzione di una maggiore solidarietà e progressività, che intervenga in un quadro europeo sulla tassazione delle multinazionali del web, che orienti le imposte verso l’economia verde, che sia durissima con i grandi evasori ed elusori.

Va fatto un tagliando del regionalismo semianarchico le cui contraddizioni sono venute al pettine clamorosamente in questa crisi sanitaria, riaprendo un dibattito laico sul Titolo V da riformare, archiviando la minaccia leghista dell’autonomia differenziata, ragionando sulla proposta avanzata da Bersani di una bicamerale sulle autonomie per riordinare la trama di poteri tra centro e periferia.

L’alleanza giallorossa è in grado di fare queste cose così come è messa oggi? Ad essere onesti, non credo ci siamo ancora. Ma continuo a pensare che l’intesa tra M5S e centrosinistra rappresenti l’equilibrio più avanzato in Parlamento e nel Paese per garantire una svolta. Allargare a Forza Italia la maggioranza se non addirittura l’esecutivo, temo non aiuterebbe a cementare quell’equilibrio. Al contrario, ne affievolirebbe qualsiasi spinta riformatrice, ivi compresa la possibilità della ricostruzione di un campo progressista rifondato su un’idea di giustizia e di redistribuzione. Se questo obiettivo si ritiene archiviato, forse sarebbe meglio dirlo con chiarezza.

Arturo Scotto

Nato a Torre del Greco il 15 maggio 1978, militante e dirigente della Sinistra giovanile e dei Ds dal 1992, non aderisce al Pd e partecipa alla costruzione di Sinistra democratica; eletto la prima volta alla Camera a 27 anni nel 2006 con l'Ulivo, ex capogruppo di Sel alla Camera, cofondatore di Articolo Uno di cui è coordinatore politico nazionale. Laureato in Scienze politiche, ha tre figli.