Nel tempo della decrescita. Che dobbiamo accettare, ma non contemplare

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Chi rinuncia a una discussione sulle idee rischia la subalternità e l’irrilevanza; non solo sul piano culturale. Una suggestione che anima il nostro tempo è quella della decrescita. Non va celebrata. Non va rifiutata. Va affrontata criticamente. Secondo Charles Baudelaire l’idea di progresso sarebbe “spenta come un fanale senza luce”. L’uomo moderno, un “disgraziato”, “ansimante”, per “la fretta e il panico”, “inghiottito nel traffico”. Con un’immagine cruda: il progresso, uno “scorpione” che, “stretto nel cerchio di fuoco, trafigge se stesso con la sua coda”. Da parte sua Walter Benjamin ha spiegato che le rivoluzioni non sono “le locomotive della storia universale”; al contrario, “sono, sul treno dell’umanità viaggiante, il dar di piglio al freno dell’emergenza”.

La coscienza dei limiti non è una novità. Non c’è più, se mai c’è stata, una linea continua e ascendente. C’è un percorso, irto di ostacoli, con il rischio, sempre incombente, di possibili fallimenti. E infatti: se confidiamo che una certa cosa non si ripeta più (come a proposito di un risorgente pericolo neofascista) è proprio perché temiamo che la regressione, l’involuzione, il passo indietro, possano, di nuovo, verificarsi.

I nostri nonni avevano la sensazione che i loro figli e nipoti sarebbero stati meglio di loro. Non è più così. Quel nesso causale si è spezzato. Non si può guardare alle risorse, da quelle naturali a quelle economiche, senza questa consapevolezza. L’ultima cosa che serve sono i giri di frase edificanti sulle magnifiche sorti e progressive. I quali non attenuano, anzi accentuano la tendenza al sospetto e al pregiudizio. In un mondo dominato dall’incertezza, la democrazia ha il compito di riaffermare il valore di una di protezione a favore dei più esposti.

Quando, con enfasi eccessiva, viene annunciato uno zero virgola in più di Pil, non c’è motivo di dispiacersi. Il problema è che la crescita non significa automaticamente due cose: 1) occupazione; 2) giustizia sociale. Anche in questo caso la responsabilità della parola suggerirebbe una maggiore continenza verbale in modo da evitare di dissociare il linguaggio dai fatti, notoriamente testardi.

Questo non toglie che i fautori della decrescita sinceramente pensino di portare l’annuncio di qualcosa di epocale. Non mi avventuro nel pensiero Serge Latouche (dal Breve trattato sulla decrescita serena a Limite e oltre), autore che, come ogni altro, merita studio e approfondimento. Anche se – come spiegava Edmondo Berselli nell’Economia giusta – esso appare una risposta troppo “intellettualistica”. A suo modo ideologica. Nel senso di giustificare l’esistente.

C’è la crisi? Sì, c’è ancora crisi. Nella vita reale delle persone, altrove rispetto ad ogni propaganda. Ma non basta prenderne atto. Bisogna proporsi di uscirne. Sapendo che non si tratta solo di strutture o di beni materiali. Ma anche di qualcosa di più profondo, come l’essere e il fare comunità. Riannodando la relazione tra popolo e rappresentanza. Non è la forma della politica, è la sostanza di questo a motivare le ragioni dell’attesa di una sinistra più forte, nella piena coscienza dei limiti quantitativi, per la qualità di una democrazia più inclusiva.

Marco Macciantelli

Allievo di Luciano Anceschi, dottore di ricerca in Filosofia, già coordinatore della rivista “il verri”, agli studi e alla pubblicazione di alcuni libri ha unito l'impegno politico di amministratore pubblico.