Da Tremonti ai Gialloverdi: la degenerazione di una prassi

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Per ritrovare il bandolo della matassa, bisogna tornare a dieci anni fa, precisamente all’ultimo governo Berlusconi, avviato l‘8 maggio 2008 e conclusosi il 16 novembre 2011 sotto i colpi dello spread. Pochi mesi prima, nel marzo del 2008, era uscito un libro con l’ambizione di dare l’accento alle scelte di politica economica e di bilancio. Autore: Giulio Tremonti. Titolo: La paura e la speranza.

Un pamphlet sull’Europa, nel quale il ministro dell’Economia andava configurando i lineamenti di un neoconservatorismo basato su identità, famiglia, autorità, ordine.

Pochi mesi più tardi, vinte le elezioni, il Documento di Programmazione Economico-Finanziaria (acronimo Dpef) fu deliberato dal Consiglio dei ministri il 18 giugno 2008 a firma congiunta di Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi.

Un Dpef ambizioso: Un piano per l’Italia. Sei paginette e mezzo in cui veniva illustrato un obiettivo di ampie vedute: “meno costi, più libertà, più sviluppo”. Rivelatrici alcune spie linguistiche: come il ripetuto Leitmotiv del “non mettere le mani nelle tasche degli italiani”, scritto, nero su bianco, non sul manifestino di un comizio elettorale, ma in un documento ufficiale della Presidenza del Consiglio dei ministri. Il populismo vanta dei progenitori.

In quel testo c’era un passaggio in cui si spiegava come la legge Finanziaria sarebbe stata “anticipata nella sua parte sostanziale a prima dell’estate da un provvedimento legislativo che affianca e dà corpo al Dpef”. Cioè: un decreto. La disincatata celebrazione di una tendenza in atto nella programmazione economico-finanziaria: dalla legislazione alla decretazione.

Lì, in particolare, l’idea dell’abolizione indiscriminata dell’Ici sulla prima casa. Proprio nel primo Consiglio dei ministri dopo il voto del giugno 2008, a Napoli, in piena emergenza-rifiuti, quel governo Berlusconi ne decreta l’abolizione. Un istante dopo la stessa maggioranza di centrodestra ne prepara una variante, l’Imu, da applicare dal 2014. Poi, alla fine del 2011, Monti anticipa l’Imu dal 2014 al 2012, caricandola di ciò che era venuto a mancare nel triennio precedente. Sino all’abolizione definitiva, non progressiva o selettiva, secondo reddito e patrimonio, ma indiscriminata, dell’Imu sulla prima casa, da parte del governo Renzi, in una fattuale continutà ideale.

Tutto questo nell’arco non di un secolo, di un paio d’anni.

Il federalismo inteso come tecnicalità contabile si trasforma, così, in una vernicetta data sopra il vecchio dirigismo, invasivo, perché debole.

La legge Finanziaria fu istituita nel lontano 1978. Ricordo, en passant, che è l’anno del parto gemellare della Legge Basaglia e Servizio sanitario nazionale. La legge Basaglia (la 180) del 13 maggio 1978. La legge istitutiva del SSN (la 833) del 23 dicembre 1978, con decorrenza del 1º luglio 1980. Oggi, quarant’anni fa. Il passato della Repubblica non è solo subalternità al globalismo liberista, è anche riformismo fondato sui valori universalistici.

Tra il 2008 e il 2011 parte la propaganda sul vecchio suk della Finanziaria, in quanto caratterizzata da decisioni fatte passare a colpi di maggioranza, sulla base di maxi-emendamenti dal contenuto non sempre chiaro, non sottoposto, per tempo, all’esame delle opposizioni e probabilmente neppure della stessa maggioranza.

“Su queste basi – si spiegava nella premessa alla Decisione di finanza pubblicasuccessivamente deliberata dal Consiglio dei ministri in data 29 settembre 2010 – sarà possibile giungere alla presentazione di una legge di Stabilità sostanzialmente ‘tabellare’”. Poco pie illusioni.

Sicché dalla vecchia Legge Finanziaria si è passati alla nuova Legge di Stabilità. Domanda. Cosa è cambiato? Nulla. La prima anticipata dal Documento di programmazione economico-finanziaria, la seconda dalla Decisione di finanza pubblica. Dal Dpef al Dfp. Giochini di parole. Tutto come prima.

Nonostante gli auspici di una visione esclusivamente “tabellare” non c’è stata legge di Stabilità che non abbia riproposto, dal 2009, la logica, antica e sempre nuova, delle cattive abitudini, tra marchette, clientele, corporativismi variamente assortiti.

Il fatto è che non ci sarà mai riforma, per via legislativa, se la se la politica non decide di cambiare, profondamente, se stessa.

Quel che è accaduto ieri, quindi, non può essere considerato una novità, ma, a causa della miscela di protervia e insipienza, rappresenta l’avvio di un’ulteriore degenerazione del sistema.

Per la sinistra, insieme alle forze autenticamente costituzionali, è il momento di riaffermare il primato della legge, la responsabilità del legislatore.

Siamo arrivati ad un punto-limite; il combinato di disposto tra la programmazione fondamentale nell’impiego pubblico delle risorse, la conoscenza degli atti da assumere, l’impedimento al libero e approfondito confronto, limposizione autoritaria della fiducia costituscono, insieme, la violazione evidente di una prassi democratica, un vulnus non solo alla Costituzione materiale, anche a quella formale. Nel tempo della massima richiesta di trasparenza, il riperpetuarsi della massima opacità.

La questione sociale delle scelte di politica economica, ancora una volta, si interseca con la questione democratica di una capacità di garantire la partecipazione, l’evidenza pubblica, il dialogo critico inteso come arricchimento della qualità delle scelte da compiere in nome e per conto, non di una parte, ma del Paese. La logica dei maxiemendamenti propinati un istante per l’altro è una prassi oggettivamente antidemocratica. Farli passare a colpi di maggioranza un’offesa, non solo alle minoranze, anche ai parlamentari della maggioranza.

Da ieri la legge di Stabilità è diventata qualcosa di abnorme e di ciò portano la resposabilità le attuali forze al governo. Sino a una settimana fa gridavano “Non arretreremo”. Per ritrovarsi a far la legge di Stabilità, all’ultimo istante,sostanzialmente sotto dettatura di Bruxelles. Due governi in uno. Non solo per il profilo dei due vice primi ministri, i due capi partito, Salvini e Di Maio. Anche per il contestuale ruolo dei cosiddetti tecnici, Conte, Tria, Moavero. Un po’ del “governo tecnico” prossimo venturo è già dentro l’attuale compagine di governo.

I primi per mesi a intingere le chiacchiere nello spread. I secondi ad annunciare il contrordine: si tratta con l’Europa – di cui, peraltro, facciamo parte. A una manciata di giorni dal termine ultimo, col voto delle Camere, mentre si continuava a parlare di un possibile esercizio provvisorio, di un’infrazione non del tutto esclusa e che tuttora pesa come una spada di Damocle, tra balbettii, tramestii, riunioni a palazzo, conciliaboli, vertici, caminetti, minacce di dimissioni, ecotasse, Suv, pensioni d’oro, vitalizi.

Lontani anni-luce da quel che avevano raccontato, non sei mesi fa, sei giorni fa. Hanno proclamato di aver abolito la povertà; si scopre che hanno tagliato fondi agli enti di beneficenza, contributi alla cooperazione sociale non profit, colpito il volontariato, a cominciare dalla Croce rossa. Dentro al suk sino al collo.

Con questa legge di Stabilità, con questo mondo di condurne l’istruttoria, diimporne al Parlamento l’approvazione, i sovranisti han mostrato la mancanza di rispetto che hanno per la sovranità vera, quella del popolo italiano.

Marco Macciantelli

Allievo di Luciano Anceschi, dottore di ricerca in Filosofia, già coordinatore della rivista “il verri”, agli studi e alla pubblicazione di alcuni libri ha unito l'impegno politico di amministratore pubblico.