Cavallerizza Reale e non solo: quando e perché la cultura va in fumo

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Il francese Edouard Degas è un pittore impressionista conosciuto principalmente per i molti dipinti di ballerine che produsse nel corso della sua vita. Fra i quadri meno noti ve n’è uno che sempre mi colpisce: L’attesa ai box delle corse dei cavalli. Si tratta di una tela dai toni caldi del beige e del marrone, con in primo piano i fantini sui loro cavalli, a lato i palchi e il pubblico e, sullo sfondo, un’alta ciminiera col suo sbuffo indolente. Si trattava del primo di pinto pubblico che osava mettere nella stessa cornice i fasti delle mondanità della borghesia ottocentesca con l’ombra lugubre di un progresso tecnologico foriero spesso di bruttezza. Lo stile liberty (o floreale) è, proprio in quegli anni, una risposta al futuro dell’Europa: riscoprire la bellezza della natura per tornare a stupirsi e immaginare un mondo migliore. Il fumo è un elemento importante della modernità. In molte città da anni si è iniziato a morire in conseguenza dello smog, mentre Greta (e tutti noi) si preoccupa di quante terre emerse rimarranno ai nostri nipoti (ciò anche a causa di quel mondo borghese e industriale che, dall’Ottocento, non cessa di spingere sull’acceleratore della tecnologia e del consumo). La seconda guerra mondiale, e Primo Levi in particolare, ci ricordano poi delle ciminiere dei forni crematori.

Come spieghiamo questi fumi, a noi stessi prim’ancora che agli altri e ai nostri figli? La natura conosce i roghi estivi. I fumi umani sono diversi: ci richiamano al mistero di cosa siamo. Io pensavo di sapere, almeno politicamente, cos’ero. Fino a qualche settimana fa pensavo davvero di essere repubblicano, di essere fiero di una famiglia da sempre repubblicana.
E invece anche questa piccola certezza mi è andata in fumo, quasi contemporaneamente rispetto all’ala del Palazzo Reale di Torino che (per la seconda volta in pochi anni) è andata a fuoco.
Non mi scandalizza che ciò avvenga: molti altri siti UNESCO sono nelle stesse condizioni (Pompei che crolla per la pioggia, per non parlare dell’attualità di Venezia). Non mi scandalizza avere una sindaca che non sappia fare altro che “ringraziare i vigili” facendo chiudere in fretta e furia un’esperienza che invece era stata propagandata come una pietra miliare nell’evoluzione dei beni comuni in Italia. Non mi scandalizza un’assessora alla cultura di Torino che non si assume alcuna responsabilità. Non mi scandalizza nemmeno un’assessora regionale che, se da un lato giustamente ironizza sulla litania vuota del “grazie ai vigili”, non pone però un problema di gestione complessiva dei Siti UNESCO del Piemonte.
Negli stessi giorni in cui la Cavallerizza si apprestava a bruciare, la reggia (regionale) di Valcasotto (che non ha nulla da invidiare ai Siti UNESCO) andava sui giornali (sempre locali) perché vi si spendono soldi a togliere la muffa che non sarebbe venuta se si fossero aperte le finestre (come invece si è mancato di fare lasciando una struttura ristrutturata vuota, senza saperne condividere la gestione coi soggetti locali).
Nel mentre è pure incerta la sorte (e l’opzione di acquisto regionale o cessione a privati) del Santuario di Belmonte (pure quello Sito UNESCO): non si tratta di prezzo, ma di un proprietario che cerca qualcuno che si assuma la responsabilità di un bene di famiglia giustamente vuol verificare che uno sia capace a gestirlo (cosa che chiaramente il Piemonte non è in grado di fare, e non da oggi).
La Cavallerizza brucia dello stesso fuoco che distrusse la cappella della Sindone prima e la cattedrale di Notre Dame più recentemente. Questi fumi sono il frutto di strutture gestionali sbagliate, di scarsità di fondi, di procedure negoziali e di affidamento dei contratti mal gestite. Le competenze costano e ai patrimoni culturali (che come un anziano ha bisogno di sempre maggiori cure e che abbondano in Italia) si dedicano pochi fondi, e non li si concepisce come centri sia di spesa che di ricavo (siamo lontani dai modelli virtuosi di beni comuni comunali/vicinali e consortili di stampo svizzero o tedesco).
Capisco che senza cambiare il sistema il decadimento qualitativo generale è inevitabile, e che anche ove si facesse il miracolo ci saranno ancora crolli e roghi.
Non mi scandalizza neppure che nessuno sia in grado di richiamare ciascuno alle sue responsabilità: il Governo nulla dice, la Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO (nonostante le mie speranze sull’inclusione di Lino Banfi) pure lei evita di fare alcun cenno (mai che qualcuno si ricordasse che esistono e che forse qualche responsabilità potrebbero averla pure loro).
Non mi scandalizza neppure (lo faccio solo notare) che manchi un soggetto credibile che possa rispondere della Cavallerizza. Non cerco un imputato ma qualcuno che davvero abbia capito cosa è successo, che tipo di fallimento è avere un rogo in un sito UNESCO, nello stesso dove ce ne sono stati altri due, dove lo Stato (demanio, poi Cassa Depositi e Prestiti e solo in ultimo il Comune di Torino) si è dimostrato incapace di servire il bene comune per decenni. Su questa operazione (immobiliare, culturale e di socialità condivisa) le istituzioni (dal Comune di Torino, continuando per la Compagnia di San Paolo, l’Università, eccetera) sono state tutte coinvolte. E poi? E poi brucia.
Vi ricordate che – con tanto di conferenza stampa dell’allora Governo Renzi – nel 2016 Torino aveva siglato perfino un Memorandum col Segretario generale dell’UNESCO, prevedendo che parte delle costituendi formazioni dei Caschi Blu della Cultura sarebbero venute proprio a Torino a formarsi. Pensavamo di poter fermare i talebani che distruggono il patrimonio culturale dell’umanità; eravamo sull’onda della distruzione 2015 di Palmyra. Bravi. Oggi quello è un dossier ancora in fase di valutazione, e invece non solo gli olocausti culturali si moltiplicano, ma vengono pure a morderci nel deretano (in quella stessa Città che, con Fassino, firmava un protocollo d’intesa con l’UNESCO).
E’ l’Italia che brucia. Questa era la notizia da dare!
Che però una simile notizia non trovi eco sulla stampa nazionale, questo è davvero troppo. Questo sì che mi scandalizza, e devo ammettere non sarebbe successo avessimo ancora la monarchia. Per scemo che potesse essere un re, almeno avremmo qualcuno contro il quale lamentarci, con cui prendercela. Dei cortigiani sarebbero stati allontanati, un nuovo sistema messo in piedi, per garantire ai figli di non dover di nuovo rispondere davanti all’opinione pubblica di un fallimento così evidente.
In questo sistema si tratta solo di aspettare altra muffa nelle sale, altri depositi che si allagano prima che qualcuno, magari da decenni in attesa, possa vederne almeno la metà del contenuto (come nel caso del Museo Civico d’Arte Antica e Applicata di Torino, le cui collezioni sono per oltre il 70% non fruibili da sempre).
Chissà che quella ciminiera non fosse in realtà un simbolo? Forse che Degas aveva già visto tutto, aveva già capito che il capitalismo distrugge tutto, al punto che la ciminiera all’orizzonte anticipa i roghi (e le alluvioni) in cui si perdono i patrimoni culturali.
La realtà però non sembra cambiata da quella mattina alle corse, e così anche noi siamo lasciati lì, indecisi se stare con quelli che acclamano (senza aspettarsi nulla di costruttivo dalla giornata, solo rumore e agitazione), oppure se fare come i fantini tutti concentrati sulle loro cavalcature, o ancora se guardare al cielo sbeccato dal fumo.
Gabriele D'amico

Torinese, avvocato, appassionato di diritto ed economia della cultura, dottorando fra Berlino e Gerusalemme in diritti umani e diversità culturale. Consapevolmente olivettiano, credo nella capacità umana di superare la gregarietà del sistema limbico e ragionevolmente spero in un futuro di sviluppo umano integrale.