Tra alleati la franchezza è d’obbligo. E va detto in maniera molto chiara: chiedere la verifica sui ministri in questo momento mi sembra molto al di sotto del necessario, tanto estemporaneo quanto potenzialmente dannoso. Una scorciatoia utile a conquistare qualche titolo di giornale, senza ricadute effettive sul quadro politico e sociale. Con buona pace dei propositi – declamati urbi et orbi – di trasformare una maggioranza emergenziale in una reale alternativa di Governo alle destre.
Inutile ripetere cose già note: il paese arriva stremato a questa seconda ondata, le tensioni sociali aumentano, la crisi economica è una realtà. I dati ci parlano del rischio di un nuovo lockdown duro e le stesse parole del Presidente Conte sono abbastanza inequivocabili quanto preoccupate. Ci apprestiamo ad affrontare i prossimi mesi con la consapevolezza che la guerra al virus sarà di lunga durata e i mezzi per contrastarlo dovranno essere ancora una volta eccezionali.
Innanzitutto sul terreno delle risorse: se interi settori dell’economia soffriranno le chiusure forzate, necessario sarà garantire l’immediato atterraggio dei ristori promessi. Questo deve essere l’assillo principale di chi è alla guida di Palazzo Chigi.
Se sul terreno occupazionale faremo i conti con l’ennesima contrazione dei posti di lavoro, sarà meglio ascoltare il sindacato e prorogare fino alla fine dell’emergenza il blocco dei licenziamenti. Perché nella crisi nessun posto di lavoro deve essere perduto.
Se ci troveremo a dover constatare amaramente che le scuole saranno sottoposte a ulteriori restrizioni delle lezioni in presenza, sarà meglio intervenire in maniera più efficace sul potenziamento della didattica a distanza e sulla qualità dei trasporti, senza perdersi in sterili e ridicole polemiche sui banchi a rotelle. Perché il diritto all’istruzione non può essere una bandierina.
Se ci accorgeremo – come solo i liberali di casa nostra sembrano non notare – che è vero che ci sono pezzi di società che scivolano ancora di più nell’incubo della diseguaglianza, della marginalità, se non addirittura nella fame, andrà approntato un piano di emergenza complessivo sulla povertà: il reddito di emergenza va reso strutturale. Perché è troppo facile parlare di “sussidistan” quando si ha la pancia piena e gli sgravi nel portafoglio.
A me pare che nella maggioranza questo sia il dibattito che va promosso, affrontato e risolto.
Non si può chiedere all’opposizione – che in questo momento se la ride sotto i baffi, Salvini in primis – di collaborare e poi aprire la danza dei ministeri da sostituire, come propone il capogruppo del Pd Marcucci oggi al Senato.
Nessun tabù, intendiamoci. Non esistono santuari intoccabili. Ma un Esecutivo si misura sulla capacità complessiva di assolvere al compito che la storia gli assegna nel determinato momento in cui è chiamato a dispiegare la sua azione. E oggi il Governo resta in piedi se è in grado accompagnarci fuori da una pandemia che sta mettendo in ginocchio le democrazie europee e preparare la strada per uno sviluppo del paese più coeso e giusto, dove alcuni beni pubblici fondamentali non siano più sottoposti – come nell’ultimo decennio – a tagli insostenibili e dove l’equa e progressiva redistribuzione del carico fiscale tra fasce di reddito troppo differenziate non sia vista come una bestemmia.
Ce lo dice la Spagna, che nella manovra di bilancio introduce addirittura la tassa sulla fortuna, senza dilaniarsi nel dibattito sul Mes.
La cacofonia dei ministeri in questa fase sicuramente non aiuta: rischia di far smarrire il senso di una missione comune e di incentivare una deriva corporativa delle competenze. Se tu mi chiudi le palestre, allora io ti chiudo i cinema. Se tu mi fermi le scuole, allora stringo la gola alle regioni guidate dal tuo partito che fanno troppe bizze. E così via.
Va riaperto invece quel canale col paese reale che nella fase difficile del primo lockdown – pur tra difficoltà e incomprensioni, soprattutto tra centro e periferia – aiutarono il paese a stare in piedi e unito. Un governo capace di interpretare un bisogno di statualità che la nostra biografia nazionale ha conosciuto soltanto in rari momenti.
Basta guardare i dati delle nazioni a noi confinanti: Macron va in affanno nel rapporto con l’opinione pubblica perché i francesi dallo Stato esigono molto e la durezza della crisi pandemica ha colto impreparate le classi dirigenti transalpine. In Italia è accaduto l’esatto opposto: un popolo che ha sempre vissuto con diffidenza la presenza dello Stato, si è aggrappato a una classe dirigente che invece ha provato a esercitare una funzione pubblica a protezione innanzitutto della vita umana, ricorrendo a misure sanitarie, economiche, sociali straordinarie e inedite.
Questo spirito sembra perduto.
La frammentazione degli interessi sociali sembra trasferirsi sulla composizione interna al Governo, esaltandone tendenze particolaristiche che possono entrare in rotta di collisione a ogni tornante stretto dei prossimi mesi. Serve dunque rapidamente passare dalla resistenza al progetto, come diciamo da mesi.
Questo impone una lettura comune del futuro dell’Italia, non le divisioni sulla contingenza o sul singolo provvedimento. Le scorciatoie, invece, sono soltanto un’illusione.
Domani – 30 ottobre – un certo Diego Armando Maradona compie sessant’anni, un anniversario che meriterebbe ben altra attenzione. Pare sia stato il più grande calciatore di tutti i tempi. Uno di quei fenomeni che, quando lo mettevi in campo anche nell’ultimo quarto d’ora della partita, ti ribaltava il risultato. Anche se militava in una squadra di brocchi e non era comunque il suo caso.
Non credo ovviamente nella tesi dell’uno vale uno, l’ho sempre considerata un’utopia profondamente reazionaria. Ma onestamente non vedo in questo momento tanti Maradona in giro, capaci di entrare e cambiare il corso della partita. Vedo piuttosto una squadra – che non è solo fatta di membri di governo, ma di strutture e di gruppi parlamentari, di partiti e di movimenti, di intellettuali e di associazioni, di sindaci e di amministratori – che comincia ad allungarsi in campo, a sfilacciarsi sulle ali, a parlarsi poco nello spogliatoio, ad arrancare nella costruzione del gioco collettivo.
Qui va fatta una riflessione vera, senza peli sulla lingua e senza eccessi di diplomazia. Senza pensare che arrivi Maradona e risolva tutto. Semplicemente perché non c’è.
A proposito, tanti auguri Diego.