Appunti per un partito nuovo. Del socialismo, del lavoro, della pace

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La premessa fondamentale della discussione che in questi mesi stiamo iniziando ad affrontare è una domanda che dobbiamo farci: a cosa serve la politica e, ancor di più, la politica a sinistra?

Esistono infatti modi differenti di concepire l’attività politica e di organizzarla, a seconda della funzione che ci si approccia a svolgere.

Ciò detto, se per noi la sinistra serve a dare rappresentanza, cioè voce e potere – e dunque, sia la possibilità di raccontare la realtà, sia quella di avere un effetto trasformativo su di essa – a chi da solo non li ha, la questione cambia.

In questo caso, un partito è uno strumento fondamentale.

Il campo da gioco, infatti, è sbilanciato: il partito (e il sindacato) sono gli unici strumenti che permettono di bilanciare almeno un po’ i rapporti di forza tra chi ha capitale (sociale, economico eccetera) e chi no.

A sua volta, il partito deve essere consapevole di questo compito, che è cioè quello di dovere e potere rappresentare solo una parte della società, luogo di interessi inevitabilmente in conflitto tra di loro.

Allo stesso tempo, il partito deve essere in grado di incidere a difesa di coloro che dice di voler rappresentare: pertanto, né da un lato può limitarsi a una pur giusta indignazione e rivendicazione di alterità e superiorità morale, né dall’altro può accumulare cedimenti nei confronti delle forze che detengono il potere economico (e di coloro che, in politica, di tali forze fungono da megafono e finanche manovalanza).

Se caliamo questi pochi spunti di natura teorica sul campo della fase storica reale in cui ci troviamo, ne conseguono tre punti.

Il primo è che il nuovo partito che ci accingiamo a costruire non può essere meno che un partito del socialismo democratico: ovvero un soggetto politico che nella sua azione muova da una visione che riscopre la società, e dunque i legami tra persone, istituzioni, processi produttivi e ambiente. Tutto il contrario dell’ideologia ancora potente del tardo liberismo, per la quale esistono solo individui in competizione e mercati.

Il secondo è che questo partito deve essere un partito del lavoro, ossia che individui come suo popolo da rappresentare coloro che hanno bisogno di lavorare per vivere (a prescindere dal fatto che il lavoro ce l’abbiano oppure no, che siano dipendenti, precari o partite iva, in formazione, in ufficio, fabbrica o call center…) e, complementarmente, che vivono innanzitutto del proprio lavoro. Perché il lavoro contemporaneo è frammentato, disperso in mille rivoli, e contiene spesso ancor più sudditanza di quello dei decenni passati. Se infatti, da un lato, è vero che le trasformazioni sociotecniche di questi decenni, a partire dalla digitalizzazione dei processi produttivi, mettono in discussione le più tradizionali pratiche lavorative, rendendo indispensabili strumenti di tutela dalla povertà, è altrettanto vero che l’emancipazione, ovvero l’uscita dalla condizione di asservimento, è possibile tuttora solo tramite un lavoro che sia dignitoso.

Infine, il nuovo partito non può che essere un partito della pace, ovvero teso a ribadire l’importanza della regolazione pacifica dei rapporti internazionali e che metta al centro del suo posizionamento nel mondo la necessità di evitare nuove guerre, calde o fredde che siano. Nei mesi passati, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, tra i toni particolarmente isterici raggiunti nel dibattito italiano, si è visto perfino qualcuno andare in piazza a manifestare non per la pace, neanche solo per la difesa degli invasi, ma brandendo la bandiera della NATO: un’alleanza militare che diventa professione di fede politica. Noi dobbiamo invece lavorare per un mondo in cui nessuna alleanza militare sia più necessaria.

Non bisogna ingannarsi: questi tre elementi non sono separati tra di loro, bensì sono facce di uno stesso prisma.

Il dibattito sul liberismo che si è scatenato in questi giorni individua precisamente il conflitto che abbiamo davanti: cambiare (o rifiutarsi di farlo) il modello di sviluppo contemporaneo, che è strutturalmente costruito sullo sfruttamento dell’umanità sull’umanità e dell’ambiente, sull’accaparramento delle risorse e sulla politica di potenza, e che rischia seriamente di condurre la razza umana alla propria fine, per guerra o per catastrofe climatica.

Ed è esattamente questo stesso modello di sviluppo a prescrivere che non esistano corpi sociali e soggetti politici autonomi capaci di incidere seriamente sul governo dei processi e, in ultima istanza, orientare il mondo in un’altra direzione.

Per questo dobbiamo costruire un partito nuovo, che abbia questi obiettivi. E, se saremo in grado di farlo, nuovi dovranno di conseguenza essere anche nome e simbolo: perché infatti vi è un processo di riconoscimento in un progetto politico che non passa per la lettura dei programmi (quello di Italia democratica e progressista era davvero avanzato, eppure non ha sortito grande effetto sull’elettorato), ma per un’adesione emotiva, identitaria.

A una nuova identità politica deve corrispondere una più rappresentativa bandiera.

Sia permesso di riflettere sul fatto che l’attenzione, nei giorni in cui si insedia un comitato che ha il compito di discutere quale dovrebbe essere il profilo del nuovo soggetto di centrosinistra che ci si approccia a costruire, dovrebbe focalizzarsi molto più su riflessioni attorno ad argomenti di questo tipo, piuttosto che sui nomi dei candidati alle primarie.

Se non altro perché i tanti che negli anni si sono allontanati dalla partecipazione partitica, e tra i quali pure in una prima fase la chiamata a una costituente aveva riscosso interesse, difficilmente ritroveranno entusiasmo solo per una conta tra i diversi candidati segretari.

In conclusione, siccome, a quanto pare, negli ultimi giorni nel maggior soggetto di centrosinistra c’è chi riscopre Marx e Lenin, vale la pena recuperare anche il maggior intellettuale della politica della storia italiana, Antonio Gramsci: a sinistra molti, istruiti, chiedono luoghi dove dare spazio alla propria intelligenza; a sinistra molti sono pronti ad agitarsi e mettere in campo tutto il proprio entusiasmo; è il momento di organizzarsi, perché la sinistra e il paese hanno bisogno di tutta la forza possibile.

Lorenzo Fattori

Dottore di ricerca in scienze sociali, ha rivestito incarichi nel sindacato studentesco e nella rappresentanza universitaria. Ora è membro della Direzione nazionale di Articolo Uno.