La politica non è “vincere”, è ora di riscoprirlo. Apologia del proporzionale

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Chissà perché in questo Paese, da un certo momento in poi, il proporzionale è diventato una sorta di demone. Fu allora che il mainstream iniziò a proclamare: maggioritario, premio, designazione di un vincitore dalla sera stessa del voto. Come se la ‘rappresentanza’ fosse divenuta una zavorra intollerabile per la politica. Come se tutto dovesse istantaneamente verticalizzarsi, e condurre al governo come d’incanto. Il proporzionale non faceva vincere, il maggioritario invece sì: era cool, era di tendenza, l’avessimo scoperto prima anche in Italia! L’opinione pubblica, a un certo punto, sposò il progetto, così l’elettorato. Via l’antico lessico, avanti con il nuovo: polarizzazione, premier, mandato diretto dei cittadini, coalizioni. E poi metafore calcistiche a non finire, nell’avvertenza che il vincitore doveva governare cinque anni con il margine più ampio possibile e poi si doveva tornare al voto, scatenando sugli spalti le diverse tifoserie. Tutto tendeva a ridursi alla base popolare e all’esecutivo, con la lenta polverizzazione di ogni cosa stesse in mezzo: il Parlamento, il sistema dei partiti, i corpi intermedi. La semplificazione richiedeva che l’elettore desse un mandato inequivocabile, e chi lo ricevesse dovesse quindi esercitarlo quasi senza riferire ad alcuno, nella totale responsabilità e rinserrato nel Palazzo (a parte i tweet, i treni presi a noleggio, le comparsate tv e le passeggiate per il centro storico di Roma). Il sistema si riduceva a un filo sottile ai cui capi c’era, da una parte, il ‘premier’ e dall’altra il ‘popolo’ mediatizzato. E poi solo i media e i gruppi di potere in competizione personalistica tra loro.

Che questo sistema fosse consustanziale alla modellistica populista, e pure all’idea che della politica come impresa organizzata e collettiva fosse meglio disfarsi, tanto le competenze tecniche avrebbero pensato a tutto, che le cose stessero così non fu subito chiarissimo. La favola era un’altra, quella per cui adesso il sistema era libero di esprimere il protagonismo di taluni capi vincenti e del popolo, tutti finalmente liberi dal ‘peso’ delle aule sorde e grigie, e dalla zavorra offerta dai partiti ‘ladri’ di risorse pubbliche e di tempo. Tempo, certo. Perché, grazie al corto circuito istituzionale, alla polarizzazione, alla nuova dialettica di Capo e Popolo, si immaginava di fare le cose più velocemente, più in fretta. Fatto! Adesso! Avanti un altro! E invece, questo non era vero, perché le magagne non risiedevano nella mediazione parlamentare (anzi), ma in una classe dirigente improvvisata e nel carattere complesso dei problemi, comunque, di difficile articolazione e soluzione. La ‘calcistizzazione’ della politica, la sua riduzione a capitani, tifoserie e agonismo mediatico, toglieva in realtà al Paese la ricchezza del dibattito pubblico, della mediazione istituzionale, sacrificava la rappresentanza per nulla in cambio, impoveriva a tal punto la politica stessa da rendere un cattivo servizio al Paese. Le istituzioni rappresentative, svuotate da un confronto politico che si spostava tutto sui media e poi sui social, conquistate da coalizioni che ponevano in secondo piano i partiti, occupate da maggioranze ‘drogate’ rispetto alla effettiva composizione politica del Paese, si allontanavano ancor di più dai cittadini, li “rappresentavano” sempre meno, e quasi si inabissavano nell’inanità generale. L’azione pubblica perdeva il proprio scheletro politico-rappresentativo e l’intera impalcatura culturale per divenire una sorta di mollusco invertebrato a disposizione del primo outsider (ricco o meno) di passaggio.

La crisi della politica, in questi anni, è stata anche la crisi delle istituzioni e della democrazia. La qualità stessa della politica è destinata a decrescere se le strutture che dovrebbero esaltarla vengono disarticolate in nome dello sciocco principio per cui le elezioni dovrebbero esaltare un vincitore e garantire la vittoria. Quando invece il loro compito è un altro: ossia, assegnare una “forza” percentuale da spendere in Parlamento e nel Paese, in un concerto conflittuale, in una dialettica regolata, che serva proprio a garantire l’efficacia reale del conflitto, il suo ‘peso’. L’alternativa offerta dalla Seconda Repubblica è stata un’altra, invece: consegnare il testimone a un leader, a una coalizione, come se questo dovesse essere il toccasana, come se tutto si riducesse ad affidare lo scettro a un premier e a un esecutivo, come se la ‘personalizzazione’ fosse il rimedio e non la crisi dell’idea di intermediazione. E poi chi s’è visto s’è visto. Quando invece solo il contribuito di tutti, nella parte e nei limiti assegnati dal voto popolare, è la vera medicina, la sola garanzia che le istituzioni funzionino, la democrazia risponda efficacemente, tutti i soggetti nei rispettivi ruoli partecipino al dibattito pubblico offrendo un proprio contributo originale. Il segreto della Prima Repubblica era questo, nient’altro. Il proporzionale fa proprio questo miracolo, sollecita la mediazione politica, fa funzionare il Parlamento come tale e non come grancassa maggioritaria di qualche Capo, rappresenta il Paese invece di tracciare solchi, ‘apre’ la politica al confronto dei partiti invece di minacciare la sua chiusura già “dalla domenica sera del voto”. E la sinistra non può che trarne giovamento. Perché non dobbiamo dimenticare che la sinistra italiana (di questo si parla) è stata la protagonista della costruzione della democrazia italiana, nelle sue componenti cattoliche, laiche, socialiste e comuniste. La crisi della rappresentanza, delle istituzioni rappresentative, l’idea populista che un Capo e un Popolo possano bastare, sono una mina che è esplosa sotto la nostra sedia. Pensate allora l’orribile paradosso di far nascere un partito quale sintesi delle culture riformiste della sinistra italiana, e poi consegnarlo a regole maggioritarie! Costruire il partito della sinistra riformista per poi adagiarlo su un sistema che nasce per rinsecchire il Parlamento e la rappresentanza è roba da pazzi.

Il ritorno al proporzionale riaprirebbe strade oggi sbarrate. Costringerebbe a riconsiderare il tema delle identità politiche, delle organizzazioni, tornerebbe a esaltare il ruolo del lavoro d’aula e delle commissioni parlamentari, ridarebbe tempra alle istituzioni, spingerebbe a una selezione più seria della classe politica, che oggi si forma invece in una sala giochi, davanti ai social, limitandosi a mettere like e cuoricini. Senza mai frequentare le palestre della politica politicata, senza mai entrare nel merito della mediazioni e delle intermediazioni, assegnando alla cultura politica compiti marginali. È una classe politica che cresce all’idea che si deve ‘vincere’ sennò sei un gufo sfigato. Che il tempo della lettura è tempo perso, tanto ci sono i tecnici che leggono e ‘fanno’ per noi. Che non ‘rappresenta’, ma è ‘fedele’. Che non studia tanto ci sono i consulenti ben pagati, ma sa tutto di facebook o di instagram. A chi si aggroviglia e quasi implode attorno ai problemi della sinistra e del nuovo partito ignorando il resto, diciamo che i buoni pesci si vedono anche dal tipo di acqua in cui sguazzano. E noi, in questi venti anni e più abbiamo sguazzato, anche per stupida scelta nostra, in una palude maggioritaria che pensavamo fosse chissà quale oceano e invece era una pozza d’acqua fetida. Per uscire dalla crisi serve guardare fuori di sé, più che avviare l’ennesima introspezione autoriflessiva che divide più di unire. Per questo lanciamo un appello: non cadiamo nella trappola di una nuova legge elettorale che dovrà garantire il vincitore “dalla sera stessa del voto”. Questa filastrocca ha stancato, perché ripeterla ancora? Certo, che il proporzionale non risolve tutto. Ma è la cornice di regole appropriata per ritrovare l’ossigeno giusto che potrebbe farci tornare a correre. Restiamo fermi al proporzionale, non ci spostiamo da qui. Meglio una pessima legge come il Rosatellum, che l’ennesimo premio di maggioranza, il doppio turno dove chi vince piglia tutto, oppure il mandato diretto a Pinco Pallino, sul modello della legge comunale in vigore. Lo Stato non è uno scherzetto che si vince alla lotteria dei ‘premi’, ma una struttura complessa che deve garantire dialettica politica, sicurezza, protezione, libertà.

Alfredo Morganti Giorgio Piccarreta

Alfredo Morganti è da sempre appassionato di politica e di sinistra. Ama scrivere. Suona la batteria. Da qualche tempo si è scoperto poeta. Giorgio Piccarreta è funzionario del Comune di Roma. Coltiva orti, letture, l’amore e, fin da piccolo, la passione per la politica. Di sinistra.