Ancora a proposito di Craxi, ma stavolta parlando di politica

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Il ventennale della morte di Bettino Craxi e il film di Gianni Amelio attualmente nelle sale hanno riacceso il dibattito su uno dei principali protagonisti della fase terminale della “prima Repubblica”, scoperchiando – purtroppo – anche la pentola dei luoghi comuni e delle opposte partigianerie ormai aduse ad esprimersi con l’insulso linguaggio dei like. La trasfigurazione di Craxi, in un senso o nell’altro, avviene con una deformazione che è conseguenza dello smarrimento delle categorie politiche e che riproduce gli schemi che si sono affermati nella discussione pubblica negli ultimi decenni. Così anche in questa circostanza si manifesta, ad esempio, la tendenza a un’esasperata personalizzazione delle responsabilità che prescinde dalla considerazione del quadro politico dell’epoca, dalla storicizzazione dei comportamenti e dal radicamento delle rispettive convinzioni ideologiche delle forze in campo. La conseguenza è che lo scontro sembra ridursi al seguente dilemma: Craxi è stato un importante innovatore della cultura politica (della sinistra) e uno straordinario statista, al netto delle innegabili infortuni in cui è incorso a proposito della “questione morale”, oppure i comportamenti emersi dalle inchieste giudiziarie e la percezione che di essi l’opinione pubblica aveva maturato anche negli anni precedenti fanno premio sugli eventuali meriti dell’uomo politico.

Tra le deformazioni più vistose prodotte da questo paradigma c’è lo spazio lasciato alla pervicace ostinazione con cui una parte dei dirigenti dell’ex PSI continua ad alimentare la polemica contro il PCI, accusato di essere di fatto il mandante delle inchieste che colpirono Craxi e il suo partito e a rivendicare la decisione di sostenere il partito di Silvio Berlusconi come espressione di una scelta obbligata dal sapore “libertario”.

In questo modo si finisce però per nascondere il senso delle contrapposizioni che caratterizzarono gli anni ’80 del secolo scorso, che ebbero fondamentalmente un contenuto politico e dal quale trassero origine anche le esasperazioni che si verificarono sul terreno ideologico e il pregiudizio moralistico nei confronti del “nuovo corso” socialista. Questi elementi furono innegabilmente presenti e rivestirono un ruolo significativo nella polemica a sinistra, ma solo mistificando la realtà si può attribuire ad essi un valore centrale.

 

LO STRAPPO DI CRAXI

L’ascesa politica di Craxi non avvenne su una semplice linea di continuità con la tradizione dell’“autonomismo” nenniano ma attraverso uno strappo con cui si cercava deliberatamente di scavare un fossato tra le principali tradizioni della sinistra italiana. In discussione vennero messi due capisaldi della storia politica del Dopoguerra: la possibilità di mantenere, salvo alcune eccezioni, forme di dialogo e di collaborazione tra socialisti e comunisti nelle Regioni, nei municipi e nelle organizzazioni di massa, e il riconoscimento del ruolo politico del PCI nella società e nelle istituzioni parlamentari. Realtà che avevano resistito alla diversa collocazione dei due partiti rispetto al governo anche nella stagione del primo centrosinistra. La prova di forza che segnò visibilmente questa rottura fu, come è noto, il taglio della scala mobile, il cui significato andava oltre il merito dell’atto (il “decreto di San Valentino” del 14 febbraio 1984) con cui venne deciso dal governo Craxi. Con esso – e con la dura, convulsa discussione nel passaggio parlamentare per la sua conversione in legge -, il pentapartito, e la sua componente socialista in particolare, anche al di là delle riserve presenti nella DC, intendevano lanciare un preciso segnale: sancire definitivamente l’esclusione del PCI dalla possibilità di influenzare le decisioni politiche chiudendo la lunga stagione della “consociazione”. Un orientamento del resto presente, fin dall’inizio, nel DNA, nella ragione sociale del pentapartito.

La formula del pentapartito (la DC da un lato e i partiti del “polo laico”, PSI, PSDI, PRI, PLI) rappresentava in realtà l’alternativa all’ “arco costituzionale” degli anni ’70 e aveva avuto la sua genesi dopo la morte di Aldo Moro. Da un lato la DC, al Congresso del febbraio 1980, con l’approvazione del “preambolo Forlani”, archiviava frettolosamente l’ipotesi di qualsiasi collaborazione con il PCI, osteggiata dall’amministrazione americana, dagli ambienti conservatori del capitalismo italiano e da una parte della Chiesa. Dall’altra, il PSI si rendeva disponibile a ritornare al governo, a condizione che il partito di maggioranza riconoscesse un uguale peso ai partiti del “polo laico” guidato dal PSI, disponibile, a sua volta, ad accettare la chiusura della “questione comunista”.

 

GLI SCENARI INTERNAZIONALI E IL LIMITE DEL PCI

La scelta del pentapartito in Italia si collocava, del resto, nel mutamento degli scenari internazionali dove, a partire dal 1979, con l’intervento sovietico in Afghanistan e con la decisione di installare sul nostro continente i cosiddetti Euromissili, si apriva una nuova fase della guerra fredda. Ne derivò una tensione così forte da provocare, per la prima volta, il boicottaggio delle Olimpiadi, quelle di Mosca del 1980 da parte degli USA e di quelle di Los Angeles di quattro anni dopo da parte dei Paesi del blocco orientale. In questo contesto, la risposta del PCI risultò impacciata. Da un lato era impossibilitato ad allinearsi alle scelte dell’URSS: il partito aveva tra l’altro condannato l’azione sovietica in Afghanistan e operato uno strappo, che aveva preso le mosse dalla dissociazione dalle pressioni esercitata sulla Polonia (“Ciò che è avvenuto in Polonia ci induce a considerare che effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento delle società che si sono create nell’Est europeo è venuta esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi e che ha la sua data d’inizio nella Rivoluzione socialista dell’Ottobre. Oggi siamo giunti a un punto in cui quella fase si chiude”, Berlinguer, 15 dicembre 1981).  Dall’altro, la scelta “neutralista” ebbe l’effetto di interrompere l’evoluzione del PCI verso il campo socialdemocratico, che aveva invece accettato l’installazione dei missili americani e, contemporaneamente, mise in evidenza la crisi culturale del partito e la difficoltà a interpretare i cambiamenti in atto nei suoi referenti tradizionali e la nuova articolazione dei soggetti sociali nella “società post-industriale”.

Di fronte a un passaggio epocale che avrebbe richiesto una risposta creativa, il partito di Berlinguer si vide quindi costretto a combattere una battaglia puramente difensiva, impossibilitato, nella nuova situazione, e dopo l’esaurimento della “solidarietà nazionale”, a far vivere l’ispirazione togliattiana che lo aveva guidato dalla Resistenza in poi e di cui il Compromesso storico aveva rappresentato l’ultima declinazione.

È innegabile che la formazione del pentapartito e il tentativo di isolare il PCI si venissero a inserire in una nuova situazione che vedeva l’affermazione del “ciclo conservatore” inaugurato dalle politiche della Thatcher e di Reagan, dall’affermazione del neoliberismo e da un’offensiva di carattere culturale fondata sull’individualismo, sul primato dell’economia e sulla svalutazione della politica. Ecco, questo mi pare il centro della questione: la ratio del contrasto tra PCI e PSI risiede fondamentalmente nell’addebito al corso craxiano di avere assecondato e anzi promosso in Italia l’affermazione di queste tendenze, sia pure con qualche temperamento per quanto riguarda le politiche realizzate, nelle quali venne praticata una opzione neo-corporativa, con l’obiettivo di rendere irrilevante il ruolo sociale dei comunisti.

 

IL PENTAPARTITO, LA “COLPA” VERA DI CRAXI

Si chiudeva così una lunga stagione caratterizzata da quella che, sbrigativamente, veniva definita come “consociazione”, ovvero un quadro di relazioni tra governi e opposizione, e in particolare tra DC e PCI, nel quale, al di là della diversa collocazione e pure di fronte a scontri duri e talvolta persino cruenti nel Paese, la mediazione parlamentare e il dialogo nella società avevano garantito la stabilità delle istituzioni democratiche e le condizioni di base per il progresso economico e sociale. E avevano consentito di stimolare e talvolta di sostenere le poche o tante “riforme” attuate, dal rafforzamento della presenza pubblica in campo industriale alla nascita della scuola di massa, dall’istituzione delle Regioni allo Statuto dei lavoratori, dalla creazione del Servizio sanitario nazionale alla valorizzazione delle autonomie locali.

Il nuovo assetto politico disegnò invece un perimetro circoscritto alle sole forze di governo, all’interno del quale si ritenne che tutto fosse possibile. Il pentapartito nutrì l’ambizione di esaurire al proprio interno le possibili dinamiche politiche, con una triplice conseguenza. La prima fu una competizione esasperata tra DC e PSI sul terreno della gestione del potere, priva di qualsiasi progetto riformatore e con l’unico obbiettivo di concentrare l’attenzione sui partiti di governo e di allagarne il consenso. La seconda fu la ricerca di mediazioni di tipo corporativo nella società, pagata con una politica della spesa pubblica poco responsabile e fatta di “mance” e privilegi. La terza fu che, nell’assenza conclamata di possibili alternative, i partiti di governo misero in atto pratiche che, nel medio periodo, si rivelarono disastrose per il Paese: il degrado della pubblica amministrazione, l’accumulo di un debito pubblico che, proprio in quegli anni, ebbe un’impennata straordinaria le cui conseguenze sono ancora oggi presenti, la lottizzazione di enti e aziende pubbliche che contribuì al loro discredito nell’opinione pubblica, una corruzione incrementale riconosciuta anche da chi si riduceva a votare per i partiti di governo “turandosi il naso” ed altro ancora.

Che Bettino Craxi abbia pagato personalmente il prezzo più alto di questa stagione e che sia stata la personalità più esposta nello scontro a sinistra è dipeso dal fatto che egli stesso si intestò la paternità della conflittualità degli anni ’80 e che per un lungo periodo vi rivestì la responsabilità di guidare il governo. Lo scenario successivo agli anni ’80, con la fine dei blocchi, ha portato allo scoperto l’insofferenza di una parte vasta della società ma ha visto anche la maturazione di elementi presenti nella fase precedente, a partire dall’esasperata personalizzazione della politica. Abbandonati dai “poteri forti” che li avevano “usati”, e dagli alleati occidentali, interessati a provocare una crisi politica dell’Italia, i partiti della maggioranza vennero letteralmente distrutti dal combinato disposto delle inchieste della magistratura, delle campagne condotte dal sistema dell’informazione controllato dai signori dell’economia, della diserzione (o peggio) degli alleati, che scelsero allora un’opzione diversa per la realizzazione dei loro obiettivi: l’indebolimento della politica e lo svuotamento dei partiti.

 

CRAXI POSTUMO

Di ciò – va detto – Craxi fu il primo e forse il solo ad avere coscienza, ma ormai “a tempo scaduto”, dopo avere pervicacemente insistito, nella fase finale della sua segreteria, nel tentativo di assorbire il PCI all’interno di un partito socialista che non ne aveva le risorse (culturali, politiche, organizzative) e che aveva logorato la propria immagine nel decennio precedente, anziché accettare di essere il demiurgo di una nuova soluzione politica unitaria su basi riformiste. Un’ipotesi che la crisi del PCI, precipitata dopo la scomparsa di Berlinguer, il venir meno di riferimenti nel campo internazionale, l’assenza di una leadership e la disponibilità di gran parte dei gruppi dirigenti, avrebbe probabilmente reso possibile. Un limite che molti degli stessi dirigenti del PSI riconobbero e riconoscono oggi, e che, se superato, avrebbe forse potuto evitare all’Italia, la lunga stagione di Berlusconi e l’affermazione delle correnti populiste e della destra e l’eclisse della politica.

Un ultimo spunto. La prima affermazione dell’autonomia socialista rispetto alla DC e soprattutto al PCI avvenne a proposito della strategia da seguire sul “caso Moro”. La dissociazione del PSI dalla “linea della fermezza”, considerata alla luce della linea tenuta in seguito, al di là di altre componenti di quella scelta, aveva molto probabilmente l’obbiettivo di salvare (forse) la vita di Moro per sancire la sua morte politica: salvato dalla “trattativa”, Moro sarebbe scomparso insieme con il suo disegno politico, quello di promuovere una “democrazia dell’alternanza” in cui la DC e le sinistre, guidate dal PCI, si sarebbero confrontate liberamente nel Paese. L’esatto contrario della chiusura della “questione comunista” all’origine dell’equilibrio politico che avrebbe portato Craxi a guidare il governo.

Emilio Russo

Era il coordinatore provinciale di Articolo Uno a Como. E’ stato Consigliere regionale della Lombardia per un decennio e Assessore al Comune di Como. Ultimo segretario provinciale del PCI e primo segretario del PDS. E’ stato a lungo presente negli organismi dirigenti lombardi di PDS, DS e PD, partito da cui è uscito nel corso del 2016. Docente di Storia e Filosofia, era giornalista pubblicista e autore di numerose scritti di argomento pedagogico, interventi politici e di due romanzi, l’ultimo dei quali (Avvinta come l’edera, ExCogita) di recente pubblicazione. Ci ha lasciato pochi giorni fa.