Lavoro e dignità sono compagni di strada. Ma possono bastare? Una cosa è certa: il binomio non può diventare materia di slogan o da chiacchiere alla leggera. Bisogna essere chiari e corretti politicamente, culturalmente ed economicamente.
Bisogna tenersi lontani da luoghi comuni proprio perché abbiamo necessità di soluzioni indifferibili; se vogliamo mettere il timone sulla rotta per il futuro.
La disoccupazione, specialmente al Sud, viene associata ad una sorta di tara antropologica. Siamo davvero al delirio!
Significativi sono stati sull’argomento due eventi che vorrei ricordare a tutti/e:
1. Un discorso all’Università di Sassari in cui il presidente Sergio Mattarella ha sottolineato che disoccupazione e arretratezza di vaste aree del Mezzogiorno sono i più grossi problemi che il Paese deve affrontare.
2. Una querelle tra Stefano Bonaccini e Fabrizio Barca che, di fatto, ha messo in luce il persistere di attività sempre più precarie, spesso senza tutela, all’insegna dello sfruttamento e a volte dell’alienazione.
Abbiamo discusso per mesi sui limiti del “reddito di cittadinanza” e sull’aver eliminato troppo in fretta il “reddito di inclusione”.
Ma rappresentare gli italiani che vivono sotto la soglia di povertà – che crescono sempre più – come degli sfaticati è sbagliato e finanche vergognoso.
Mancano le politiche attive per il lavoro e resta un pericoloso “mismatch” domanda/offerta. Nel mentre, i centri per l’impiego servono solo, purtroppo, per disbrighi amministrativi.
La verità è che, talk-show a parte, le persone, che si narra siano “sul divano a guardare la TV”, possono oggi accedere, nel caso, ad un lavoro di sfruttamento delle loro vite da parte di una società dominata da classismo e clientelismo senza precedenti. Certo, un Paese che non riesce a controllare il corretto funzionamento dei suoi provvedimenti legislativi (vedi: evasione ed elusione fiscale, ritardi e impropria destinazione di cig in deroga e/o bonus) non può evitare che ci siano pure dei “furbetti di quartiere”. Ma le persone che oggi percepiscono il reddito di cittadinanza sono i destinatari dei lavori più umili perché questo costa meno rispetto a una “rivoluzione” politica, culturale e tecnologica, che in realtà è invece alla nostra portata.
Il rischio è che milioni di persone debbano pagare, come colpa, la propria povertà ed essere lasciati fuori dalla possibilità di fare del lavoro un’occasione di elevazione di se stessi.
Qualcuno diceva che il lavoro è di fatto il grosso “compreso” fra il singolo e la società. Un cittadino che lavora per ottenere un premio da consumare nel suo “tempo libero”. E questo sottende di ritenere il lavoro come il “tempo costretto”.
La questione, a mio parere, è nella “scissione” fra lavoro e soddisfazione. Ecco perché mi piace pensare a un “triagolo equilatero” che abbia al centro la persona con tre lati appunto uguali: lavoro, dignità, soddisfazione.
La dignità, infatti, non sta nel lavoro in sé; ma nella propria realizzazione all’interno di una società giusta ed equa che veda l’impegno nella professione e nel mestiere non come elemento di mero scambio per ottenere una certa agibilità sociale, ma come percorso di costruzione per una identità comunitaria.
Non basta darlo il lavoro, bisogna ripensarlo e contestualizzarlo. Ecco perché è inevitabile nel nuovo mondo, sulle macerie della globalizzazione che ha pensato di affidare tutto al mercato, investire in tecnologia e sulla scuola. Esse possono darci le chiavi per comprendere che il lavoro non può essere uno scambio feticistico tempo/denaro; ma il pilastro della solidarietà sociale.
Il lavoro non può essere identificato più, all’interno delle epocali trasformazioni in atto, come una fatica generica, come la condanna biblica comminata ad Abramo. Tutto questo richiede però una classe dirigente capace di pianificare il futuro e non curare solo l’amministrazione ordinaria del presente.