Su “Repubblica” del 14 gennaio, Luigi Manconi scrive un articolo bellissimo su quel che era la politica italiana e quel che è invece diventata. Lo spunto è dato anche dal film sugli ultimi giorni di Bettino Craxi (di cui si è già parlato su questo Magazine), caratterizzati dallo sconforto e dal senso della sconfitta, dalla malattia e dalla morte; tutte cose che appartenevano ai leader della Prima Repubblica, dice Manconi, ma che sono ritenuti una vergogna e roba da perdenti dai leader della Seconda, drogati di comunicazione e di ideologia del successo. Andremo a vedere Hammamet prima di giudicare, evitando quel che è successo a molti, di parlarne senza nemmeno averlo visto. Ma questa osservazione di Manconi la troviamo interessante e ne facciamo immediatamente tesoro. Detto ciò, il nostro problema non è l’articolo, ma il titolo con cui esso si apre: “La politica senz’anima”.
Ci chiediamo: ma non c’è un abuso del termine? Da quando a una società come la nostra interessa davvero dell’anima? Una società che vive di beni di consumo, che è del tutto schiacciata sul mercato, sulle sue frivolezze, ed è ormai abituata a rendere i valori dei semplici ‘valutati’, desiderando i beni concreti molto più che un relazione con gli altri? Peraltro la parola “anima” non compare mai nel testo di Manconi, ed è questa già un’anomalia, dà l’idea che il titolista cerchi semplicemente una locuzione a effetto, traducendo il bellissimo concetto svolto dall’autore dell’articolo (il tema dello ‘sconforto’ associato alla leadership) in una specie di teologia a basso contenuto di pensiero e alto contenuto mediale. Parlare di anima oggi è, dunque, per una ricerca di effetti speciali, serve a colpire l’immaginario, lasciando credere che si voglia davvero scavare nel profondo, quando invece si glissa in superficie sbandierando aspetti e concetti alla rinfusa.
Manconi riprende la definizione di Formica, la politica come “sangue e merda”, e ne traccia invece l’apologia. È lì, in quella definizione, non in una confusa teologia politica massmediologica, che si misura il dramma e spesso la tragedia della politica, il suo essere una prassi che mette in questione tutta l’umanità, il bene e il male, la vita e la morte. È lì che trovi anche la percezione della sconfitta, lo sconforto, il senso della fine: proprio in quella definizione, in quel sangue e in quella merda. Alla politica della Seconda Repubblica non manca allora l’anima, ossia una specie di personale purezza o vera identità o senso recondito o verità sostanziale. Manca il dramma, invece, che diventa tragedia (quello di Craxi sconfitto, per dire, o quello di Moro nel carcere delle BR o quello di Berlinguer morente sul palco), manca questo senso profondo e profondamente umano della sconfitta. Purtroppo oggi dire ‘perdente’ è lo stesso che maledire qualcuno, ma si tratta di un costume tipico di una società di lustrini dominata dalla comunicazione e dalle apparenze mediatiche.
Una società, come dice Manconi, senza più un’epopea dello sconforto. E che mette sul mercato anche le emozioni intime, che deprezza la debolezza, dove si raccontano solo i vincenti anche quando, in realtà, sono perdenti. E invece il sangue e la merda prevedono pure una fine, una sconfitta, ovvero il dramma di un congresso vero, l’ascesa e la discesa delle leadership, la tensione delle idee, il groviglio della realtà sociale e umana, e soprattutto la considerazione del disagio, della sofferenza, della finitudine ancor prima dell’idolatria del successo. La politica non ha un’anima, e se ce l’ha la mette duramente alla prova e può persino ucciderla a confronto con l’inferno quotidiano. I leader che queste cose non le sanno e non le praticano non sono leader di alcunché. Moro, Craxi e Berlinguer, al di là delle differenze sostanziali e dei contenuti della loro azione politica, avevano una cosa in comune: esprimevano anche il dramma della sconfitta, il senso della fine, non solo la gioia della vittoria, dell’ascesa o del cominciamento. Cose che vediamo, ormai, solo in alcuni leoni politici come Bersani o D’Alema, per fare dei nomi non a caso. Ma che manca, o quasi, all’intera generazione di leader e capetti mediatici venuta dopo.