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Alimentando lo scontro coi sindacati non si governa l’Italia

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Non si governa un grande paese come l’Italia alimentando e promuovendo lo scontro con i sindacati. Altrimenti la retorica dell’unità nazionale, della pacificazione, del governo senza formula politica è soltanto un rumore di fondo. Sulle pensioni bisogna riaprire subito il tavolo e provare a trovare una mediazione. Non soltanto per una questione di metodo, ma anche di merito.

La riforma Fornero ha lasciato ferite enormi in larghi strati di popolazione attiva, ha prodotto nove salvaguardie per gli esodati, ha allontanato per molte lavoratrici e lavoratori la prospettiva della quiescenza. Era stata presentata come un messaggio positivo ai giovani: anche voi avrete una pensione dignitosa, basta che i vecchi lavorino per un po’ più di tempo. È accaduto esattamente l’opposto, checché ne dicano i sapientoni che ogni giorno imperversano sulle tv con tabelline e slogan utili solo ad alludere a un cosiddetto scontro generazionale che vive solo nella loro testa.

Al contrario, la condizione giovanile è nettamente peggiorata, con un aumento vertiginoso delle condizioni di precarietà – aggravate dal jobs act che ha introdotto la libertà di licenziamento senza giusta causa – e salari sempre più bassi.

Vorrei ricordare altresì che è la condizione di intermittenza del lavoro e una capacità contributiva inesistente di chi entra oggi nel mercato del lavoro che produce pensioni basse, non viceversa. Il problema dunque è la qualità del lavoro, non le pensioni.

Il sistema delle quote non ha funzionato, ma il ritorno brutale alla Fornero sarebbe drammatico. Non si può uscire dalla lunga stagione dell’austerità senza porsi il tema dei lavori gravosi e usuranti, senza garantire una copertura previdenziale per il lavoro di cura per le donne, senza una pensione di garanzia per i giovani che tuteli chi per lunghi periodi non ha contributi.

Non si può uscire dall’austerità senza mai adottare il punto di vista di chi lavora e di chi produce. Per questo chiudere la trattativa sarebbe un errore esiziale.

Anche perché la proposta avanzata dai sindacati tutto è tranne che massimalista come viene descritta. Piuttosto, prova a tenere in equilibrio il sistema, a restituirgli flessibilità e giustizia. Insomma: è una riforma.

Perché è singolare un paese dove si parla tantissimo di riformismo, ma nessuno fa le riforme. E quando sono state fatte in passato esse hanno coinciso spesso con un netto arretramento delle condizioni economiche e sociali della parte più debole del paese. Sul fisco, sul lavoro, sulla previdenza, sulla pubblica amministrazione. Il riformismo senza riforme è semplicemente la separazione dell’establishment dalla democrazia. Ovvero non rendere conto a nessuno, soprattutto al popolo.

Dunque, la parola d’ordine è trattare, trattare, trattare. Il sindacato, riunendoci tutti meno di due settimane fa attorno alla bandiera dell’antifascismo, ha detto chiaramente che la democrazia in questo paese può essere difesa soltanto se i diritti sociali non regrediscono. È sempre stato così nel corso della storia repubblicana.

Quando è accaduto l’opposto e la crescita economica non ha incrociato politiche redistributive sono rispuntati fenomeni politici e sociali morbosi fortemente caratterizzati da impulsi neoautoritari. E abbiamo passato dei brutti quarti d’ora.

Sarebbe dunque singolare se il centrosinistra, dopo aver stravinto le amministrative, si risvegliasse con una rottura con il sindacato e con un pezzo della propria rappresentanza politica. Uno scenario che al massimo può fare comodo agli apprendisti stregoni di un presunto centro liberal tecnocratico che annunciano fantomatiche manifestazioni per i giovani contro il sindacato dei vecchi per rosicchiare qualche minuto di visibilità televisiva e uno zerovirgola in più nei sondaggi del lunedi. Coltivano un disegno politico chiaro con sponsor potenti: separare il campo progressista dalla sua base sociale e risucchiarlo per sempre dentro una dinamica di emergenza nazionale. Ovviamente sono gli stessi che il giorno dopo le elezioni – come fu nel 2018 – si diletteranno a organizzare convegni sul perché gli elettori scelgono le forze populiste, spiegando che ovviamente è il popolo che non capisce la bontà delle loro intuizioni programmatiche.

Insomma, roba già vista. Questa volta però sarà difficile dire che non lo sapevamo.

Arturo Scotto

Nato a Torre del Greco il 15 maggio 1978, militante e dirigente della Sinistra giovanile e dei Ds dal 1992, non aderisce al Pd e partecipa alla costruzione di Sinistra democratica; eletto la prima volta alla Camera a 27 anni nel 2006 con l'Ulivo, ex capogruppo di Sel alla Camera, cofondatore di Articolo Uno di cui è coordinatore politico nazionale. Laureato in Scienze politiche, ha tre figli.