Abolire il valore legale del titolo di studio è di destra: ecco perché

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Chi si aiuta abolendo il valore legale del titolo di studio? Continuando in un’opera di sostanziale demolizione della funzione pubblica, strategica per l’Italia, dell’istruzione, anche il ministro dell’Istruzion… oops, anche Salvini (è “solo” ministro dell’Interno, ma sembra avere deleghe per discutere… di tutto: da sicurezza, a politica estera, a rapporti con l’Europa, a economia, a sviluppo industriale, a commercio, ad ambiente, a giustizia, eccetera) ha voluto dire la sua.

Dopo aver partecipato al programma TV “Alla lavagna”, interrogato da una quindicina di bambini di una scuola, Salvini  deve aver capito che in Italia si può essere preparati e adatti a partecipare a un concorso pubblico anche senza determinati titoli di studio. “Dobbiamo mettere mano alla riforma della scuola e dell’università, affrontando la questione del valore legale del titolo di studio” ha affermato infatti Salvini parlando a Milano alla scuola politica della Lega. “Negli ultimi anni la scuola e l’università sono stati serbatoi elettorali e sindacali: ecco perché l’abolizione del valore legale del titolo di studio è una questione da affrontare” ha aggiunto. Salvini dunque, ha auspicato/promesso l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Il fatto in sé è “discutibile”, nel senso che se ne può discutere, ma soltanto alla fine di un percorso di riorganizzazione degli studi e della società italiana, della PA, di un cambiamento di mentalità diffusa, nel Nord come nel Sud Italia. Qualcuno ha parlato di questa rilevantissima innovazione come una sorta di “ciliegina sulla torta”: appunto, per mettere la ciliegina… ci vuole la torta. Cioè tutto il resto. Non possiamo partire… dalla fine del percorso.

Le organizzazioni studentesche, UDU in testa, si sono immediatamente dichiarate totalmente contrarie a questa nuova “boutade” del nostro.

A inizio/metà agosto di quest’anno, a Napoli e in Campania c’è stata una “polemica” sul voto di diploma “minimo” necessario per partecipare ad un concorso EAV (azienda regionale che, tra le altre cose, gestisce il trasporto pubblico in Campania); e anche allora si è discusso del problema del valore legale del titolo di studio.  Sulla base di quella “esperienza”, ho cercato di mettere giù qualche… punto fermo.

Cultura, Saperi, Istruzione, Alta Formazione, sono fattori strategici per lo sviluppo di ogni paese moderno. Sono fattori strategici di sviluppo economico, per aumentare i posti di lavoro (e più qualificati); sono fattori per aumentare il tasso di “legalità”, per aumentare la “democrazia”; sono fattori strategici per consentire ai cittadini di richiedere, con più convinzione e cognizione di causa, diritti, e perché no, avere aspirazioni “alte” e importanti.

La Scuola pubblica, laica, è una delle conquiste più importanti della storia dell’uomo. Se nel 1224 Federico II fondava la prima università “laica” al mondo (ci sono Università più “vecchie”, anche di cento anni, ma sono fondate e create dalla chiesa e da ordini religiosi); se Cavour, per combattere il monopolio della Chiesa nell’Istruzione, diede impulso e finanziò l’istruzione pubblica “statale”; se l’articolo 34 della Costituzione recita “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”; il motivo c’è.

Nel nostro paese c’è necessità di istruzione, e di alta istruzione, per meglio combattere, come dicevo, la disoccupazione, l’illegalità, per saper “rispondere”, con adeguati “strumenti”, alle sollecitazioni del mondo esterno. Disincentivare lo studio, non riconoscendo, neanche in “concorsi” per un posto di lavoro, i sacrifici, in termini di impegno, in termini economici, in termini di mancato guadagno (un giovane che studia fino ad una laurea, “perde”, rispetto ad altri suoi coetanei, almeno 5 anni di potenziali guadagni!) è reazionario e di destra. Punto.

La questione del valore legale del titolo di studio è una questione “vecchia”, e delicata. In primis riguarda le Università e le relative lauree. Vedo, con “terrore” e delusione, che si introduce nel dibattito anche a livello di scuola secondaria (e allora perché non anche primaria?). Sfugge ad alcuni, prima di tutto, che “attribuire valore legale”, valido su tutto il territorio nazionale, al titolo di studio (e alla sua “votazione”, quindi) consente all’autorità statale di richiedere a scuole e università che rilasciano questi titoli di soddisfare requisiti normativi, di contenuti, di indirizzo, precisi e “nazionali”, in mancanza dei quali, allora sì, il titolo di studio non ha valore (stiamo ragionando del principio, non della sua implementazione ovviamente).

Esistono scuole e università private, ma appunto devono essere “riconosciute”, e soddisfare una serie di criteri e requisiti. Questo ci dà la garanzia che l’istruzione sia, come DEVE essere, regolata e controllata a livello nazionale almeno. (Mai sentito parlare di bizzarre e razziste richieste di programmi ad hoc per gli studenti delle scuole del Veneto? O di riservare l’insegnamento nelle scuole lombarde ai soli insegnanti “residenti da anni” o “nativi” lombardi?)

Università e scuole di serie A e B. I promotori dell’abolizione del valore legale del titolo di studio mirano esattamente a questo. (Tra l’altro, senza valore legale, si arriverebbe immediatamente all’assunzione che un diploma di geometra è COMPLETAMENTE equivalente a un diploma turistico-alberghiero; o che una laurea in psicologia sia totalmente equivalente ad una laurea in optometria. E’ proprio così).

Non potendo usare né il valore del titolo di studio, né tantomeno, la votazione (“nei concorsi si avvantaggiano coloro i quali hanno voti più alti, pur in presenza di minor preparazione, per minore ‘severità’ o preparazione degli insegnanti, nei confronti di ‘titolati’ con votazioni più basse, ma ben migliori, meglio preparati”, una affermazione degli “abolitori”), un “elemento di decisione” nella scelta di una determinata figura professionale, magari in un concorso pubblico, diventerebbe la scuola o l’università frequentata, non già lo specifico valore della laurea o del diploma che tiene conto del voto e delle altre componenti giuridiche.

Classifiche strampalate per le università purtroppo esistono già (tralasciamo il fatto che prima si stilano le classifiche, poi si indicano e si pesano i parametri che conducono a quella classifica!); cosa dovrebbero misurare? La qualità della didattica (e della ricerca, che però assume una preponderante importanza, fin quasi a oscurare la qualità dell’insegnamento. Purtroppo!): bene, alcuni parametri (solo alcuni, certo, ma… indicativi di come si stilano classifiche) sono: che percentuale di laureati trova una occupazione entro un anno dalla laurea; quanti posti letto hanno a disposizione studenti fuori sede; la qualità dei trasporti per raggiungere le sedi di studio; eccetera capite tutti, credo, che così NON si misura la qualità di un Ateneo, la qualità dei suoi professori e ricercatori, ma il tessuto economico-produttivo in cui ha sede l’università; il grado di sviluppo civile e sociale del territorio; (ah, poi in base a queste “classifiche” si assegna una cospicua fetta del finanziamento alle università, per cui gli Atenei in fondo alla classifica ricevono molto meno di quelli nei primi posti). Tutti leggete dei “rankings” degli Atenei; in base a queste classifiche la confindustria, la politica, eccetera, “indirizzano” la popolazione studentesca (una risata amara, mi è venuto in mente un altro parametro: quanti studenti residenti oltre 100 km. attira una università: le università sarde, ad esempio, per avere un punteggio alto per questo parametro dovrebbero “attirare” studenti residenti … nel mar Mediterraneo, nel senso di proprio in mezzo al mare!) verso quegli atenei in cima alle classifiche. Scuole e università “costrette” a farsi concorrenza (altra parola-mantra dei liberisti): a parte la già “naturale” vantaggiosa posizione geografica (dal punto di vista del tessuto economico-produttivo-sociale), scuole e università per attrarre studenti “dovrebbero” prendere i “più bravi” insegnanti e professori, mettere a disposizione strutture all’avanguardia (biblioteche, laboratori… ): stipendi più alti, ovviamente (non c’è altro modo!); tasse più alte (non c’è altro modo!); con le norme attuali, anche più soldi dallo stato!

Si attuerebbe una sorta di selezione naturale basata sul censo e non sulla bravura effettiva e sulla voglia di riscatto dei ceti sociali meno abbienti. E’ evidente, allora, come questo stato di cose danneggi in primis gli studenti meno facoltosi, e danneggi IRREPARABILMENTE il Mezzogiorno, con una decina di università concentrate nel Nord d’Italia (e in prospettiva, che so, centinaia di licei e istituti tecnici e migliaia di scuole medie ed elementari) che assorbirebbero gli studenti delle famiglie più agiate, che possono permettersi tasse elevate, e possono permettersi mantenimento di giovani in altre città, per svariati anni. Con un ulteriore impoverimento del Sud: non solo più soldi “direttamente” alle università (e scuole) del Nord, ma, come già avviene, purtroppo, un trasferimento di ricchezza complessivo al Nord (si stima che gli studenti calabresi o lucani o sardi, eccetera che studiano a Milano o Torino o Padova, portino una ricchezza di miliardi di euro al Nord, pagando alloggi, trasporti, abbigliamento, cibo e ristorazione, ricreazione…).

Il voto di diploma, o di laurea, non è frutto di una o due ore di esame, bensì di anni e anni di studio, di prove reiterate, di miglioramento nel corso degli anni, di maturazione e di maturità, di capacità critica, oltre che di conoscenze specifiche ed approfondite, ovviamente anch’esse indispensabili, sull’aoristo, o sul secondo principio della termodinamica, o su Leopardi e Schopenhauer, o sull’uso e utilità di un gascromatografo, o sulla politica staliniana nei confronti della creazione dello stato di Israele, o sull’algoritmo di Gauss, o sulla diagnosi e sulle terapie per le pancreatiti.

Bisogna assolutamente valorizzare e “premiare” chi nei 5+3+5 anni di studi, più gli eventuali 3+2 anni di università, si è impegnato, ha faticato, ha ottenuto, nel corso di lunghi anni, buoni ed ottimi risultati. Perché considerarli uguali ad altri? Per disincentivare lo studio? Accidenti, una posizione più di destra e reazionaria non riesco a immaginarla: i “ricchi” troveranno sempre il modo di sistemarsi, gli altri lo faranno (condizione necessaria, non sufficiente, non ho difficoltà ad ammetterlo) con la preparazione, l’istruzione, il sapere, le competenze acquisite durante gli anni di scuola (ed eventualmente di università).

Non c’entra, sembra, ma c’entra eccome! Ogni anno, puntuale, parte la polemica sui 100 e 100 e lode agli esami di maturità, in numero maggiore al Sud, rispetto al Nord. “Al Sud le commissioni sono di manica larga! Al Nord sono più “severi”, più esigenti” (molti insegnanti nelle scuole del Nord, sono del Sud; diventano severi ed esigenti… per l’aria che respirano, evidentemente!). Qualcuno mi sa spiegare perché un voto più “basso” dovrebbe essere garanzia di “severità” e addirittura di maggiore “qualità” complessiva? (Mia personale esperienza e “abitudine mentale”, quindi destituite di ogni “validità statistica”: capita che un “17” io lo faccia diventare 18, ma un 28 … rimane 28!)

“La piaga del familismo amorale, tipica della società del Mezzogiorno, ovviamente invade anche il campo della scuola”, sento già affermare da alcuni fustigatori di costumi (degli altri!). Ma fatemi il piacere!

E via con assessori (di sinistra, di Piemonte ed Emilia) e presidenti (di destra, Veneto e Lombardia) di Regione che “protestano” chiedendo di “salvaguardare i giovani del Nord, danneggiati, nei concorsi, da questa “pratica” da debellare! Siamo al ridicolo, se non fosse politicamente gravissimo!

I test Invalsi, si dice, riportano risultati esattamente opposti, in cui sono i giovani studenti del Nord ad eccellere rispetto a quelli del Sud: test standard, uguali su tutto il territorio nazionale, punteggi “oggettivi”: si usino i test Invalsi, si abolisca l’esame di maturità! Cattiva coscienza, ignoranza: si utilizzano e si mettono a confronto prove e risultati tra loro … incomparabili. Su questa questione ho poi scritto su “scuola24.ilsole24ore“: Esistono scuole e università di serie A e di serie B? Forse si. Certo, con l’abolizione del valore legale (oltre a tante altre precise e mirate azioni politiche) questa distinzione si acuirebbe, e si allargherebbe il fossato tra i 2 gruppi, che poi, ripeto, sono per la maggior parte praticamente riconducibili alla latitudine in cui operano: per individuarle, basta saper usare un sestante!). Gli è che ritengo (e credo di essere in buona compagnia) che più che di poche eccellenti scuole o università, noi abbiamo bisogno di buone scuole e università diffuse in TUTTO il paese. “Privatizzando” di fatto scuole e università, con la questione dell’abolizione del valore legale del titolo di studio, mettendole in competizione per attrarre studenti, si va nel verso esattamente opposto: chi è già “migliore”, lo diventerà sempre di più; chi è “peggiore”, lo diventerà sempre di più.

Giuliano Laccetti

Laurea in Fisica. Ordinario Università di Napoli Federico II. In segreteria regionale Articolo Uno Mdp Campania, ha responsabilità sui temi Università, Scuola, Cultura. Presidente Comitato Scientifico Associazione politico-culturale 
“e-Laborazione”. Si interessa di politica universitaria e della ricerca; è appassionato (ed esperto) di anni 60, libri, calcio, western, fantascienza, serie TV poliziesche e giudiziarie americane.