Quanto state per leggere è un’opera di fantasia. Ogni riferimento è mediamente casuale.
Ci sono pomeriggi di primavera, in cui la bellezza di Roma ti colpisce come uno schiaffo. Questo pensava, Giuseppe Anzaldi, affacciandosi alla finestra del suo piccolo studio legale in Via dei Greci: un attichetto esattamente a metà strada tra via Condotti e via del Babuino.
Perché non cambiare? Perché non prendere un locale più grande, per riempirlo di un bello stuolo di segretarie, associati e praticanti? Giuseppe non ci pensava nemmeno: la sua vita era lì, in quelle tre stanze, in quella finestra sui tetti, schiaffeggiati dalla bellezza rosseggiante del tramonto di Roma.
Il suono del telefono lo strappò alla morbida opulenza di quella vista e di quei pensieri, per riportarlo alla realtà di lettere da scrivere, memorie da studiare, seminari da preparare per studenti che non avevano più voglia di ascoltare. La dura vita dell’avvocato che ha scelto di fare anche il professore universitario. O del professore universitario costretto a fare l’avvocato, perché l’insegnamento non basta a mantenere due mogli, tre figli e un’amante ripropostasi come collega e segretaria.
Rispose al terzo squillo: la prospettiva di sorbirsi le scuse accampate dall’ennesimo cliente in ritardo sul pagamento della parcella non lo attraeva per nulla.
«Pronto? Avvocato Anzaldi?»
«Chi parla, prego?»
«Sono Fornari, avvocato. Si ricorda di me?».
Ancora una volta, Giuseppe fu colpito da uno schiaffo: ma non quello avvolgente della bellezza di Roma. Quello improvviso e scorticante del passato che ritorna: e che non porta con sé ricordi piacevoli.
«Onorevole… a cosa debbo questa telefonata?»
«Non sono più onorevole da tredici anni, avvocato. Avrei piacere di parlarle, se ha mezz’ora per un vecchio cliente. Non si tratta di questioni professionali. Diciamo, una visita di cortesia: più una cortesia verso di me, a dirla tutta».
«Ma certo, Onorevole… Può avvicinarsi verso le otto? Quando la mia collega torna a casa?». Ottima soluzione per affrancarsi dall’ennesimo vernissage in cui l’amante-segretaria lo avrebbe trascinato.
«Alle otto sono da lei. E… avvocato?»
«Mi dica?»
«Non sono più un onorevole».
Due ore dopo, Alfredo Fornari sedeva dinanzi a Giuseppe, ed ammirava l’affaccio sui tetti di Roma. Lo sguardo limpido e sereno sotto una disordinata chioma di capelli bianchi rendeva quasi impercettibile la contrazione del labbro che a volte gli deformava il volto, in una sorta di forzato sorriso destinato quasi ad unirsi alla cicatrice sotto lo zigomo destro. Quel tic e quella cicatrice erano stati la causa del loro primo incontro, avvenuto esattamente vent’anni prima: quando Fornari non era ancora un onorevole, e Giuseppe credeva ancora che la professione e l’insegnamento avessero un senso diverso dagli assegni da staccare a mogli e amante.
Quell’incontro, per Giuseppe, aveva un nome e una data: Genova. Luglio del 2001.
Un’estate di parole di fuoco e di fuoco per le strade, di manganelli neri e di ossa spaccate, di sangue che impasta le strade e di mutande da non esporre alla vista del Presidente degli States, del sangue di Carlo Giuliani e delle fioriere di Berlusconi, di un popolo che voleva cambiare il mondo e di un mondo che non voleva farsi cambiare.
A costo di aggredire.
A costo di torturare.
A costo di uccidere.
«Onorevole…cioè…dottor Fornari: posso sapere adesso il motivo di questo incontro?»
«Le ho già detto, avvocato: è una visita di cortesia. Cortesia per me»
«Beh, se volesse dirmi in cosa consiste la cortesia di cui ha bisogno…»
«Ricordare avvocato. Ricordare. Vorrei ripercorrere, magari rapidamente, le fasi principali del processo in cui mi ha assistito».
A Giuseppe non piaceva perdere tempo, ma Fornari era un cliente speciale. Gli aveva assicurato la ribalta dei giornali, gli aveva aperto le porte di alcuni salotti televisivi nei quali aveva potuto contrapporre le ragioni dello stato di diritto alle invettive degli oplites di quella nuova destra sempre pronta ad invocare la ghigliottina contro i ladri di polli e a santificare truffatori, falsificatori di bilanci, corruttori e concussori come vittime dei giudici comunisti.
Morte ai negher e convivere con Cosa Nostra, delinquente il no global ma eroe il capomafia. Troppo, anche per un cinico come lui.
Si alzò e andò verso lo schedario, non senza avere lanciato un altro sguardo alla notte che scendeva, blu e densa, sui tetti eterni.
«I fatti sono chiari, dottore. Lei si è costituito parte civile nel processo contro i poliziotti che ordinarono la carica in via Tolemaide, in occasione del G8 di Genova del 2001. In quell’occasione, lei fu arrestato malgrado avesse più volte segnalato di essere un giornalista de “Il Manifesto” regolarmente accreditato per seguire lo svolgimento della manifestazione. Fu tradotto presso la caserma di Bolzaneto dove fu oggetto…»
«Dove per poco non mi fu sfondata la faccia avvocato. Non abbia timore a chiamar le cose col loro nome».
Fornari si sfiorava con l’indice la cicatrice, mentre il sorriso nervoso diventava sempre più incontrollabile.
«Sì… comunque… i poliziotti sono stati condannati in via definitiva, nel processo in cui il sovrintendente Fournier ha descritto le scene dell’irruzione della scuola Diaz come degne di una macelleria messicana…»
«Già, mi è andata bene, almeno sotto quel profilo: alloggiavo anch’io alla Diaz. La faccia spaccata mi ha permesso di sfuggire alla macelleria messicana. Chissà: magari mi avrebbero infilato le molotov nello zaino…»
«Ad ogni modo, dicevo… I poliziotti sono stati condannati. Lei ha ottenuto un risarcimento da parte dello Stato di quasi quarantamila euro… e grazie al suo reportage, il mondo ha avuto le idee più chiare su quanto è accaduto a Genova in quei giorni. Tanto è vero che, alle successive elezioni, i Democratici di sinistra l’hanno candidata come capolista alla Camera dei Deputati. Insomma, direi che il suo processo si è concluso con una vittoria. Una sua vittoria, una vittoria per la verità. Abbiamo vinto, onorevole. Ora il mio suggerimento è quello di lasciarsi alle spalle quella vicenda, e di provare a guardare avanti»
«Guardare avanti, avvocato? Io fatico a guardarmi allo specchio. E non la cicatrice, no: la cicatrice non è il ricordo peggiore. Ma vede questa specie di ghigno che mi porto dietro? Il volto mi si contrasse così quando mi arrivò la prima manganellata, in Piazza Alimonda. Sì, avvocato, io ero lì, mentre moriva Carlo Giuliani: ero lì, e ho visto tutto. La camionetta che andava a sbattere, l’assalto al defender, la pistola di Placanica ad altezza d’uomo… E sa cosa avevo pensato, Avvocato? Avevo pensato che, tutto sommato, la morte di quel poveraccio fosse un incidente sopportabile: scontri di piazza, un questurino dal grilletto facile, un manifestante con la testa esplosa. Ci poteva stare. Era stato un incidente. Non avevo capito… Ho capito trenta secondi dopo»
«Quando…“
«Quando ho visto un poliziotto che urlava verso un altro ragazzo che era lì quasi per caso, che vagava per quella piazza senza avere idea di quello che gli stava capitando intorno: “Bastardo! Lo hai ucciso tu, bastardo! Tu lo hai ucciso, con la tua pietra!”. Quello guardava e non capiva, e il poliziotto continuava a gridare. Io avevo il tesserino della stampa al collo, mi sono avvicinato a quel poliziotto per spiegare cosa avevo visto. Perché ancora credevo che quel poliziotto fosse lì per accertare la verità dei fatti, per fare giustizia. Gli dissi “Sono un giornalista, lasci stare quel ragazzo, non c’entra nulla, io ho visto tutto, io…”. Non feci in tempo a finire di parlare, mi vennero addosso in cinque, in dieci… “zecca comunista”, ripetevano “zecca comunista!”. Alzai la mano per mostrare il tesserino, e fu allora che lo vidi: quella montagna nera, che brandiva un bastone enorme. Mi venne quasi da sorridere: sono un giornalista…
Non ho mai smesso di sorridere, avvocato, da quando mi ha colpito per la prima volta. Non ricordo molto altro tranne che mi sono risvegliato a Bolzaneto. L’occhio mi sanguinava, e io non riuscivo a togliermi questo maledetto sorriso dalla faccia. La montagna nera era ancora davanti a me, e passava il manganello da una mano all’altra. Dietro di lui, una specie di coro muto: una massa indistinta di lamenti, di preghiere, di grida. La voce della disperazione, la voce della paura.
“Allora, zecca comunista. Tu non hai visto niente, vero? Non hai visto niente, perché hai la faccia sfasciata e non potevi vedere”.
La bocca mi si contraeva sempre più: stavo morendo, ma non riuscivo a non sorridere.
“Le ripeto che sono un giornalista. Io…”
“Tu non hai visto niente, zecca comunista. E adesso, per essere sicuro che non hai visto niente, ti sistemo anche l’altro occhio. Contento?”
“Io…” La montagna mi veniva di nuovo addosso, il manganello si alzava come una clava. Cercavo di riparami con le mani, ma sapevo che sarebbe stato inutile. Il colpo sarebbe arrivato, e con esso il dolore: lancinante e crudo. Dovevo solo sperare che il mio cervello reagisse in fretta, che mi facesse perdere all’istante conoscenza, e mi facesse ripiombare in quell’abisso oscuro da cui il sapore del sangue e la voce della paura mi avevano appena strappato.
Ma non arrivò il dolore. Arrivò un urlo. Una voce arrocchita da mille sigarette e dal gelo di tanti appostamenti notturni, arrotondata da una tonalità quasi baritonale e ingentilita da una nota di napoletanità.
“Agente, ma-che-cosa-sta-facendo?!?”
Il manganello si bloccò a mezz’aria, ma la montagna non si scompose più di tanto: “Nulla, commissario. Insegno a questo rosso a non immaginarsi cose che non ha visto”.
“Agente, non glielo ripeterò una seconda volta: si allontani immediatamente da quest’uomo. Ma si rende conto del casino che avete combinato? Il direttore del giornale per cui lavora il dottor Fornari ha appena chiamato il PM di turno. Lei non solo ha senza motivo aggredito un giornalista, non solo lo ha arrestato illegittimamente. Ma lo ha minacciato in presenza di testimoni e lo ha ridotto… così. Di questo fatto risponderà al Questore, agente: glielo assicuro io, fosse l’ultima cosa che faccio”
“Eh, il Questore, il Questore…Io ho fatto quello che dovevo, Commissario. Siamo noi contro di loro, noi contro le zecche comuniste: farebbe bene a ricordarselo, o magari la prossima volta sarà lei a ritrovarsi dalla parte sbagliata”.
Fece per allontanarsi, ma prima mi assestò una carezza col manganello sulla guancia sana: “Stai attento a quello che ti inventi, stai attento a quello che racconti, comunista di merda. O un giorno, magari, racconterai di avere rivisto me: e quella non sarà un’invenzione…”
Il resto della storia lo conosce, avvocato: due giorni dopo, quando seppi della Diaz, piansi. Piansi per quella montagna nera, perché era solo il braccio armato al servizio di un disegno più grande. E piansi per quella voce arrotondata dalla napoletanità, perché mi aveva consentito di credere di nuovo che la Polizia salva vite, non spacca teste…».
«Dottor Fornari, Lei ha raccontato questa storia tante volte: a me, ai giudici, ai Suoi colleghi giornalisti. Si è battuto per l’istituzione di una Commissione di inchiesta che facesse luce sulle responsabilità sui fatti di Genova…».
«… Commissione mai istituita»
«… Comunque…c’è stata una sentenza, ci sono state delle condanne, ci sono stati dei risarcimenti. C’è stata giustizia. Vada avanti, perché ha vinto»
«Lei dice, avvocato? In un’aula di Tribunale, in parte sì. Ma la Storia, come ci ha giudicato?»
«La Storia?»
«Vede, avvocato. Noi eravamo lì per cambiare un mondo che non ci piaceva, per affermare che la titolarità del potere economico non poteva, da sola, governare l’ordine delle cose: e io, anche per affermare che l’Italia non era sotto padrone, che la logica del ghe pensi mì, delle veline al potere, del “io ho i voti-quindi comando io” non poteva condizionare il mio Paese. Quel poliziotto aveva ragione: eravamo noi contro di loro. Noi per cambiare il mondo, loro per difendere un mondo che non voleva farsi cambiare. Noi i buoni, loro i cattivi. Solo che noi non eravamo pronti a sparare, loro sì…»
«E allora?»
«Anche quando sono entrato in Parlamento, avevo questa idea: noi eravamo dalla parte giusta, loro dalla parte sbagliata. Volevo battere chi a Genova sorrideva davanti alle fioriere, volevo sconfiggere chi scambiava il Parlamento per il giardino di casa sua. Poi, è arrivato quel ragazzo che non voleva parlare di Caimani: sono arrivati i facilitatori, le larghe intese, le grandi coalizioni. Noi e loro a governare insieme, noi seduti a fianco a loro. E quando si pensa a Genova, si pensa a qualcosa di lontano: a tre giornate di follia, a teste calde contro questurini che perdono la ragione e iniziano a sparare. Volevamo cambiare il mondo, ma alla fine il mondo ha cambiato noi. Abbiamo vinto, avvocato? Ripeto: forse in un’aula di Tribunale. Ma non abbiamo più niente in cui credere, le nostre battaglie sono state inutili».
Fornari si alzò, e prese il cappotto: »Ecco la cortesia che le volevo chiedere, avvocato: non dica più che abbiamo vinto, se dovessimo rivederci, o se dovessero richiamarla in qualche trasmissione televisiva. Non lo dica, perché non abbiamo vinto. Noi abbiamo perso, avvocato. Abbiamo perso».
Ancora quel sorriso forzato, e la notte gentile di Roma lo inghiottì, come una delle tante ombre sconfitte che popolano lo spazio sotto la città eterna.
Anzaldi si passò una mano sul viso, poi guardò il display del cellulare: messaggi della prima moglie, mail della seconda moglie, telefonate dall’amante che era andata da sola al vernissage. Un ultimo sguardo alla finestra, pensando che la doppia dimensione di professore e di avvocato gli consentiva di fronteggiare quell’assurda realtà.
Ma lo schiaffo del ricordo ancora gli pungeva la pelle.
C’era stati giorni in cui anche lui credeva, in cui la giustizia sembrava un valore e non solo una parola buona per qualche convegno di accademici annoiati, in cui la gente si mobilitava per un’idea, in cui sembrava valesse la pena spendersi per una battaglia alta. Come quelli di Genova, tra sangue e fuoco.
Come erano lontani, quei giorni: sommersi da parcelle incassate, strette di mano e conti da pagare.
Come erano lontani, e struggenti, e sconfitti. Ombre nella notte.
«Abbiamo perso, avvocato». Anche a Giuseppe un sorriso deformò la parte destra del viso: stavolta in una smorfia di amarezza.
«È vero, abbiamo perso». Sussurrò chiudendo la finestra.
Un pensiero perduto sui tetti di Roma.