1. Introduzione
È tempo che la salute ritorni ad essere una priorità.
È tempo che la sanità pubblica ritorni ad essere considerata un investimento, per la salute e il benessere delle persone.
Articolo Uno lo sostiene da sempre e, a pochi mesi dal suo insediamento, grazie alla iniziativa del Ministro Speranza, il Governo ha dato un primo importante segnale di cambiamento con la legge di Bilancio: più risorse per il SSN, più risorse per gli investimenti in sanità, meno vincoli sul personale, abolizione del superticket, nuovo Patto per la salute.
Poi è arrivata la pandemia e tutto è cambiato.
Ma non è mutato l’impegno per un cambio di paradigma. Lo era prima dell’emergenza pandemica, lo è ora che abbiamo capito quanto siamo vulnerabili.
La pandemia ha colpito il nostro paese in un momento in cui il SSN aveva raggiunto il suo punto di massima debolezza.
Negli ultimi dieci anni la spesa sanitaria pro-capite a prezzi costanti è diminuita nel nostro paese e ciò ha contribuito tra l’altro ad aumentare il divario tra Italia e altri paesi europei rispetto alle risorse economiche per la sanità pubblica. Nello stesso periodo il personale dipendente si è ridotto di oltre 40 mila unità ed è mancato il ricambio generazionale di medici e infermieri: oggi più della metà dei medici italiani ha più di 55 anni, una delle percentuali più alte in Europa. Così come tra le più basse è la percentuale di infermieri ogni 1000 abitanti (ad esempio la metà rispetto a Francia e Germania). Completa il quadro drammatico dell’impoverimento del SSN nell’ultimo decennio l’aumento del precariato e del ricorso a personale esterno, ospedali obsoleti e insicuri, servizi territoriali impoveriti, scarsa cultura della prevenzione nei luoghi di vita e di lavoro, dotazione di posti letto ospedalieri fra le più contenute dell’Europa continentale, diseguaglianze geografiche e socio- economiche in crescita, disimpegno dei vertici decisionali a tutti i livelli.
In sostanza se il SSN sta ancora reggendo, continuando a produrre buoni risultati in termini di speranza media della vita e livelli di performance del sistema, è grazie a un alto livello di carico quantitativo e qualitativo richiesto al personale dipendente, non più a lungo sopportabile senza una inversione di tendenza.
Un SSN costruito nel 1978 su pilastri solidi e ancora oggi attuali, ma lasciato lentamente impoverire grazie a una diffusa sudditanza culturale nei confronti del pensiero neoliberista favorevole al superamento della sanità pubblica e benevolo verso le assicurazioni e il privato for profit. Al contempo l’aumento della spesa out of pocket – cresciuta del 14% dal 2012 al 2018 – ha generato una privatizzazione strisciante della nostra sanità per coloro che ne hanno le possibilità economiche, e una rinuncia alle cure sanitarie per quanti, specie dopo la crisi economica, non hanno avuto un reddito adeguato.
Ma il Coronavirus ha aperto gli occhi anche ai peggiori detrattori della sanità pubblica: tutti si sono resi conto che l’ombrello di protezione garantito dal SSN libera ognuno di noi dalla paura di non potersi curare a causa degli alti costi dei trattamenti (un ricovero per problemi respiratori con ventilazione assistita per 4 giorni costa 16 mila euro; per maggiori complicanze si arriva anche a oltre 50 mila euro); tutti sono consapevoli che il rischio di perdere il lavoro (rischio purtroppo crescente con una crisi economica così profonda come quella attuale) non comporta, in Italia, la perdita della protezione sanitaria. Non è poco. E dobbiamo difendere queste scelte, fatte proprio da quella generazione di anziani che ora il virus mette a dura prova.
Ora dobbiamo ricominciare; abbiamo bisogno di prospettive in grado di modificare il paradigma dominante. Il dolore e i lutti di questi mesi saranno stati inutili se saremo disposti ad accettare le solite ricette.
Quali le principali direzioni di intervento?
Anzitutto occorre porre al centro un aumento permanente del finanziamento del SSN , in questa fase anche contando sulle risorse del Recovery Fund, e una operazione di investimento in personale, strutture e tecnologie, sia per sostenere e qualificare il rilancio della sanità pubblica sia per superare le disuguaglianze territoriali e sociali.
Oltre a questo aspetto, che è precondizione della riqualificazione dell’offerta di politica sanitaria, è opportuno pensare anche alla sua riconfigurazione, partendo da alcuni debolezze che la crisi pandemica ha messo in luce.
Riteniamo che sia nell’assistenza territoriale (par. 2) e nel suo rapporto con l’assistenza ospedaliera (par. 3) che si annidano le principali debolezze del sistema sanitario nazionale, fragilità che potrebbero facilmente tramutarsi, invece, in solide ossature in grado di innalzare gli standard qualitativi delle prestazioni assistenziali a vantaggio di tutte le persone. Questa fase di grande difficoltà dovrebbe essere l’occasione per ripensare la questione del personale sanitario (par.4), il principale investimento che oggi il SSN può fare. Al contempo pensiamo che sia oggi tempo di utilizzare un forte investimento nelle tecnologie digitali (par.5) per semplificare le procedure di accesso ai servizi da parte degli assistiti, agevolare l’attività dei professionisti, favorire un più efficace rapporto tra rete distrettuale e rete ospedaliera. Altre questioni che ci pare utile menzionare sono il tema delle disuguaglianze di salute e di accesso ai servizi, sia per classi di reddito che per area geografica, il rapporto tra Stato e regioni, il tema della medicina di genere e la prevenzione sui luoghi di vita e di lavoro (par.6).
2. La rete dei servizi territoriali
La risposta sanitaria all’emergenza Covid-19 è stata quasi esclusivamente ospedaliera per un lungo primo periodo: tutta l’assistenza territoriale, attaccata pesantemente dal Covid-19, ha dimostrato la sua debolezza strutturale e soprattutto la sua subalternità culturale all’ospedale, incapace, per una lunga fase, anche se con differenze fra regioni, di definire e svolgere il suo ruolo. Non possiamo dimenticare che per settimane la strategia territoriale è stata quella immobilista, di attendere l’evoluzione della malattia in attesa di un eventuale ricovero ospedaliero.
E se la rete ospedaliera, pur con alcuni limiti, ha mostrato una buona capacità di risposta, grazie alle eccellenti professionalità, a una discreta strutturazione frutto di decenni di attenzione politica all’ ‘ospedale’, da parte delle istituzioni locali e delle norme nazionali, la stessa cosa non si può dire per la rete dei servizi territoriali.
L’assistenza territoriale ha mostrato di fronte alla pandemia una debolezza strutturale, che richiederebbe un forte indirizzo nazionale per una radicale riorganizzazione e un robusto potenziamento dei servizi, per offrire cure primarie a tutte le persone e su tutto il territorio nazionale e con il coinvolgimento delle comunità locali. Possiamo affermare che il disinvestimento e i tagli alla sanità di questo decennio hanno avuto effetto soprattutto sulla sanità territoriale.
Più precisamente è mancata una strategia assistenziale territoriale uniforme e conseguentemente l’assenza di un filtro territoriale per l’accesso all’ospedale. La crisi Covid-19 ha inoltre evidenziato la necessità di setting nuovi, anche da realizzare all’occorrenza e transitoriamente, che siano contemporaneamente alternativi al domicilio e all’ospedale.
In sostanza i servizi sanitari territoriali fino ad oggi hanno ricevuto una attenzione residuale da parte della politica e delle istituzioni, in termini di finanziamento e risorse. In questo ambito emergono diverse esigenze tra cui: rafforzamento del ruolo dei distretti, forte spinta alla domiciliarità della presa in carico, rafforzamento dei Dipartimenti di prevenzione, salute mentale e cure primarie. Va previsto un rilancio del Piano Nazionale Cronicità e un forte investimento sulla figura dell’infermiere di comunità.
La necessaria riorganizzazione delle cure territoriali passa in primo luogo per il rilancio dell’assistenza distrettuale, a cui va garantita forza e autonomia e una dotazione adeguata di personale in tutto il territorio nazionale, attraverso i servizi che operano nelle comunità in cui vivono le persone, potenziando le cure primarie, basate sulla sanità d’iniziativa e su gruppi di lavoro che garantiscano un’assistenza integrata e personalizzata, per identificare e trattare precocemente i problemi di salute della popolazione, per prevenire e ritardarne l’aggravamento, all’interno delle Case della Salute e con il coinvolgimento delle comunità locali.
Una delle priorità del rilancio dei servizi territoriali è il rilancio dell’assistenza domiciliare.
Un’assistenza che dovrà essere garantita fino al proprio domicilio attraverso l’erogazione di prestazioni eseguite nello specifico contesto d’azione dell’Assistenza Domiciliare Integrata, attraverso equipe multidisciplinari. L’equipe dovrà contare sulla presenza del medico di medicina generale, di infermieri, di operatori sociosanitari, di fisioterapisti e di altre professionalità sanitarie, con l’apporto – ove necessario – di specialisti ospedalieri che visitano il paziente a domicilio.
Da questo punto di vista la svolta dell’istituzione delle Unità speciali di continuità assistenziale (USCA) è da valutare positivamente perché rappresenta il primo importante segnale di responsabilizzazione del territorio nella cura dei pazienti Covid-19, ma di per sé non è sufficiente e, allo stato, presenta alcuni limiti. Si pensi solo al fatto che il sistema si regge sull’adesione volontaria dei medici alle USCA, che coinvolge i medici meno esperti (che in qualche caso non hanno neanche completato il percorso formativo) di tutto il sistema sanitario e per i quali viene prevista una bassa remunerazione. Occorre lavorare su questo aspetto per rendere le USCA una solida infrastruttura del SSN, cosi come le Case della Salute: su entrambi queste infrastrutture occorre un investimento in termini di risorse, personale e coordinamento, rendendo in generale permanente la modalità di lavoro in équipe sul territorio.
Per quanto attiene ai servizi per la cronicità, va segnalata la scarsa comprensione del ruolo e del funzionamento delle strutture residenziali per anziani e quindi l’adozione di una strategia sbagliata che ha favorito lo sviluppo delle infezioni. Pensare di assimilare le strutture residenziali per anziani ad ospedali in grado di isolare e di curare adeguatamente gli anziani positivi da Covid-19 è stato un grave errore, che comunque, è bene dirlo, è stato condiviso con il resto d’Europa.
Dobbiamo ad ogni modo superare le RSA come soluzione ordinaria alla non autosufficienza. In questa emergenza ci siamo resi conto che la virulenza del Coronavirus è stata mitigata proprio dove le persone sono state prese in carico dai servizi territoriali, senza aspettare la necessità di un ricovero.
Nel rilancio dell’organizzazione dei servizi territoriali, la centralità va data dunque alla domiciliarità e al potenziamento dei servizi di prevenzione.
Il potenziamento dei dipartimenti di Prevenzione va realizzato in tutti i luoghi ove si svolgono le attività lavorative o, semplicemente, quotidiane, su tutto il territorio nazionale. Per fare questo bisogna garantire l’incremento significativo di personale in tutte le diverse articolazioni organizzative del sistema di Prevenzione, assegnando loro risorse adeguate in tutti i settori, dai rischi epidemici agli infortuni sul lavoro, dalle dipendenze agli incidenti domiciliari fra gli anziani, ecc.
Occorre sviluppare una qualificata rete epidemiologica nazionale e un piano nazionale per la gestione delle emergenze epidemiche, perché l’esperienza insegna che le epidemie non sono più un fatto straordinario, così come occorre prepararsi per tempo per alcuni rischi sanitari in crescita, come ad esempio l’antibiotico-resistenza. La centralità in questo ambito dell’Istituto Superiore di Sanità va ripresa in un percorso che è stato interrotto qualche anno fa. Le grandi emergenze hanno una loro specificità di natura tecnica, che va costruita e valorizzata e che deve fornire le linee guida di fondo per riorientare in prospettiva le scelte del SSN.
In generale va riorganizzato, anche nel rapporto tra Stato e Regioni, un adeguato sistema informativo e, nello specifico caso dell’epidemia, un sistema di sorveglianza delle infezioni che sia in grado di affrontare le situazioni straordinarie come quella che abbiamo vissuto, in modo che ogni regione sia in grado di organizzare il tracciamento dei contagi. Per questo intervento serve molto personale che serve solo (fortunatamente) in certi periodi e non costantemente. Occorre in generale poter contare su una organizzazione flessibile, che all’occorrenza metta a disposizione tutto il personale necessario dei dipartimenti di prevenzione e dei distretti sanitari e personale straordinario a cui accedere facilmente per rilevare, testare, isolare e trattare ogni caso e rintracciare ogni contatto.
3. La rete ospedaliera
La rete ospedaliera è stata messa sotto enorme stress dall’ondata epidemica, specie nel mese di marzo, quando il numero di accessi ai pronti soccorsi e dei ricoveri in terapia intensiva ha avuto un andamento esponenziale.
Abbiamo così potuto notare i punti di forza e debolezza della rete ospedaliera italiana: di fronte all’emergenza, da un lato si è riusciti ad aumentare il numero di posti letto in terapia intensiva, ma dall’altro la modalità di gestione di tale incremento è stato lasciato alle singole strutture ospedaliere, che si sono dovute far carico con le proprie forze di questo crescente aumento di intensità. Occorre dunque pensare nel medio periodo a soluzioni di programmazione da questo punto di vista, per far fronte a possibili future pandemie o altri eventi che mettano sotto stress la rete ospedaliera, tramite due direzioni di intervento.
La prima consiste nel fornire indirizzi specifici e vincolanti sulla rete delle terapie intensive, da prevedersi strutturale e modulabile al tempo stesso, evitando soluzioni temporanee precarie e improvvisate. Per questa rete dovrebbe essere fornita indicazione su come centralizzare maggiormente tali indirizzi a livello nazionale, in caso di gravi situazioni di emergenza.
Il secondo aspetto consiste in un investimento in padiglioni temporanei, smontabili e rimontabili, da localizzare in ogni regione presso i principali ospedali di secondo livello, che abbiano funzione permanente di disaster hospital.
Al di là dell’aspetto più discusso in questi mesi, vale a dire la capacità di far fronte a possibili nuove pandemie e alla dotazione di posti letto di terapia intensiva, questa drammatica esperienza può rappresentare l’occasione per ripensare in generale la rete ospedaliera nazionale, che deve essere riordinata in modo da garantire, in tutto il paese ed evitando eccessive disparità territoriali, i servizi in tutte le specialità, rivedendo la dotazione di posti letto nelle discipline più sacrificate.
È ormai consolidata l’idea che oggi, e ancor più domani, per ospedale debba intendersi una struttura sanitaria votata all’alta complessità tecnologica e professionale; se da un lato la rete ospedaliera è organizzata secondo il sistema hub-spoke, dall’altro gli ospedali di rete vanno integrati con un sistema di presidi a media e a bassa complessità di cure che assolvano ad una specifica funzione di filtro.
Questo principio di fondo, del resto contenuto già nel DM70, va confermato nel disegno complessivo della rete, ma cercando di sanare alcuni degli effetti negativi che l’applicazione del DM70 ha determinato in alcune realtà, specie nell’entroterra del paese e nel rapporto tra ospedali di rete e altri presidi territoriali, garantendo un funzionamento diffuso della rete di emergenza, dei servizi ambulatoriali e dei servizi sanitari post acuzie, riabilitativi e per la cronicità.
Occorre dunque garantire il funzionamento della rete dell’emergenza, con il compito di operare tempestivamente e, in particolare, intervenire con efficacia sul trattamento delle acuzie tempo dipendenti: pazienti con patologie cardiologiche (infarti), con danni cerebrali (ictus) e con gravi traumi, oltre a garantire ogni altra funzione di alta specializzazione.
Occorre rendere la rete del privato contrattualizzato più coerente al modello organizzativo del pubblico, superando le reti d’impresa che aggregano piccole strutture con una logica di produzione inevitabilmente opportunistica e concorrenziale con quella del pubblico, mentre occorre pensare ad un rapporto tra sanità pubblica e privata non competitivo, ma collaborativo.
Infine, bisogna avviare un piano straordinario di investimenti, per la sicurezza delle strutture sanitarie, a garanzia degli operatori e degli assistiti. Realizzazione, con modalità che accorcino i tempi dell’articolo 20, di nuovi ospedali, facendo ricorso alle risorse pubbliche già disponibili e a quelle che saranno rese disponibili con i fondi europei. Ciò consentirebbe anche di evitare costosi progetti di finanza privata. Va ricordato che l’emergenza coronavirus ci ha dimostrato che negli ospedali vetusti la riorganizzazione delle attività è stata molto più complessa e costosa, mentre è stata più agile e rapida in quelli di nuova costruzione. Abbiamo bisogno di realizzare strutture ospedaliere e territoriali, sicure, nel rispetto delle norme vigenti (antisismiche, antincendio, amianto, ecc.).
4. La politica del personale
Il personale (professionisti e operatori in genere) ha dato prova durante l’emergenza di uno straordinario spirito di servizio, che è uno degli elementi da cui si può ripartire. Vanno previste forme di gratificazione e di tutela nei loro confronti per l’attività svolta durante l’emergenza. Va ragionato sulle forme di inserimento straordinario in servizio in caso di emergenza del personale in formazione.
Un punto critico è rappresentato dalla determinazione del fabbisogno formativo di professionisti. Va fatto un ragionamento sull’Università, sulle facoltà di Medicina e sulle scuole di specializzazione e sulle Aziende Ospedaliero-Universitarie. Analogo ragionamento va fatto sulla ricerca che va orientata anche sui temi della innovazione organizzativa.
Gli interventi sui tre fronti implicano un aumento del personale dipendente, con ricadute positive non solo sulla salute della popolazione ma anche sull’occupazione su tutto il territorio, mentre, come detto in apertura, il personale è diminuito, invecchiato ed aumentata la componente precaria.
Un grande lavoro dovrà, poi, essere compiuto anche nelle modalità di gestione del personale sanitario. Si può ad esempio pensare di rendere obbligatoria per tutti i medici la frequenza negli ospedali per almeno tre o cinque anni. In questo arco temporale sarà offerta la possibilità di scegliere e di intraprendere strade differenziate verso la specializzazione nelle più variegate discipline; alcuni potranno accedere al ruolo universitario e altri ancora sviluppare competenze specialistiche. Nel grande alveo rappresentato dalla medicina generale territoriale si potrà accedere così dopo aver trascorso un periodo di tempo di formazione in un contesto prettamente ospedaliero. Non un ruolo secondario riveste, inoltre, la questione riguardante la stabilizzazione a tempo indeterminato di tutti i medici che operano nel servizio del 118 dal momento che, oggi, questo servizio in Italia è assicurato da personale sia dipendente che convenzionato, ma che necessariamente richiede un processo di uniformazione verso l’esclusivo rapporto di dipendenza. Al personale che lavora nei pronti soccorsi e nella medicina di urgenza va dedicata una particolare attenzione, perché questa emergenza ha mostrato quanto sia necessario un investimento adeguato rispetto alle responsabilità richieste, ad esempio potenziando le borse di studio, il riconoscimento economico e il personale nei pronti soccorsi.
Un ragionamento a parte va fatto sul ruolo del Medico di Medicina Generale. Che siano le articolazioni previste nel DM ’70 o una loro evoluzione verso le micro-equipes, verso la strutturazione delle Usca, o un coinvolgimento diretto all’interno delle Case della Salute, o di altri presidi del SSN (back office di pronti soccorsi ecc.), certo è che va aperto un confronto con i MMG per valorizzare il loro ruolo e la loro funzione strategica all’interno della riorganizzazione del SSN.
5. Salute e digitale
Potenza di calcolo, big data e aumento della componente tecnologica nelle attività sanitarie sono i tre elementi di un’unica strategia che oggi affianca e in parte sostituisce sia la sfera professionale sanitaria, sia la stessa fase decisionale, sempre più alla ricerca di una giustificazione tecnica e copertura scientifica.
La transizione dall’ospedale al territorio dell’azione di assistenza e cura rischia oggi di esaurirsi in una gigantesca delega a poteri computazionali, supportati da figure ambigue come sono i centri di elaborazione e prototipazione dei dispositivi digitali, a cui si rischia di affidare un ruolo talvolta eccessivo e che stravolge la sanità da scienza sociale a pura tecnica automatica.
In questa logica diventa dunque essenziale la riflessione sulle modalità di integrazione e implementazioni delle funzioni di calcolo e automatizzazione nelle procedure sanitarie, che come i farmaci, e più di essi, devono essere socialmente mediati e negoziati in una logica di governo condiviso e trasparente dei saperi.
La gestione dei dati e del sistema informativo della sanità italiana deve dunque diventare una delle priorità del SSN, la cui gestione va raccordata con le Regioni e ricondotta alle strutture del Ministero (tra cui Agenas).
L’Italia detiene infatti un grande patrimonio informativo sanitario che va utilizzato per il miglioramento delle prestazioni all’assistito, la programmazione sanitaria e la ricerca scientifica, per lo sviluppo di modelli predittivi, al fine di convertire dati in innovazione. Un patrimonio informativo che può essere arricchito ulteriormente, con una maggiore diffusione del Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) nella popolazione italiana, che va rafforzato affinché rappresenti il principale punto di riferimento informatico tra il cittadino e il servizio sanitario nazionale, anche al fine di dare al cittadino stesso la possibilità di tenere costantemente sotto controllo la sua storia sanitaria.
Riteniamo di primaria importanza l’utilizzo dei dati sanitari, in forma anonima e aggregata, nel pieno rispetto delle norme in materia di privacy, anche attraverso l’utilizzo dell’intelligenza artificiale (AI), al fine di promuovere politiche per l’innovazione nella sanità attraverso i Big Data.
Al contempo va sostenuto lo sviluppo della telemedicina, al fine di migliorare la qualità dell’assistenza e la continuità delle cure. Attraverso la telemedicina è possibile portare direttamente a casa del paziente il servizio medico, migliorando la qualità della vita dei pazienti, eliminando i tempi di attesa e di trasferimento, razionalizzando il lavoro dei medici che, grazie alla telemedicina, possono curare i pazienti senza allontanarsi dai propri studi. La telemedicina è fondamentale per migliorare le prestazioni sanitarie, in particolare nelle aree periferiche dell’Italia.
Riteniamo anche utile lo sviluppo di applicazioni per Smartphone come dispositivi medici e, per questo motivo, proponiamo di introdurre la possibilità per i medici di prescrivere l’utilizzo di “App” come ha fatto recentemente la Germania.
Da questo punto di vista le misure prese dal Governo per la digitalizzazione della sanità e l’innovazione fondata sull’utilizzo dei dati vanno salutati con favore e vanno nella giusta direzione, partendo dal presupposto che l’uso dei dati sanitari è considerato innovativo se produce un miglioramento delle prestazioni ai cittadini.
E’ quindi necessario sostenere ulteriori misure che consentiranno di dare la possibilità a ogni cittadino di tenere costantemente sotto controllo i dati sanitari; sviluppare modelli predittivi fondati sui dati per costruire scenari programmatici per i prossimi anni e rafforzare il coordinamento in materia di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione delle malattie; sostenere la ricerca scientifica in sanità tramite la digitalizzazione.
6. Altre questioni rilevanti
L’emergenza Covid ha mostrato con grande evidenza un dato che già conoscevamo: il forte squilibrio territoriale del nostro sistema sanitario, sia per tipo e qualità delle prestazioni erogate, sia per disparità di accesso alle cure.
Non riteniamo utili ulteriori modifiche costituzionali, ma, anche a Costituzione invariata – anzi, proprio per garantire il rispetto sostanziale dell’art.32 Cost. in tutto il paese – è possibile pensare di garantire un maggior raccordo tra i sistemi sanitari regionali, tramite un rafforzamento delle attività di monitoraggio e coordinamento della programmazione a livello centrale, per rendere più omogenee sul territorio nazionale la qualità delle prestazioni.
I forti squilibri nella qualità dei Servizi Sanitari Regionali possono essere in parte contrastati con un sistema di monitoraggio centrale molto più robusto, che vada al di là dei sistemi di indicatori (vecchi e nuovi) e della Griglia LEA molto orientata alla valutazione delle dotazioni e delle attività e non dei processi sul campo, ma anche pensando a un piano straordinario per il Sud per ridurre l’attuale squilibrio territoriale.
Il tema delle disuguaglianze di salute va ad ogni modo approfondito in una apposita iniziativa di Articolo Uno, sia con riferimento alle disuguaglianze per classe sociale, che per coorte generazionale, che rispetto alle variabili territoriali e di genere.
Per quanto attiene a quest’ultimo aspetto, il piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere (in attuazione dell’articolo 3, comma 1, Legge 3/2018) pubblicato dal Ministero della Salute è un buon piano: si tratta di renderlo fattivo nelle varie Regioni.
A questo proposito i temi a cui mettere mano sono:
– sostenere e rafforzare i consultori come punti di aggregazione delle donne, finalizzati soprattutto alla promozione della salute in tutte le fasi della vita;
– l’applicazione della legge 194/1978 in un contesto di conoscenze scientifiche ed organizzative diverso da quello del 1978. Pensiamo all’introduzione dell’aborto farmacologico: nel 2017 in Italia le IVG tramite tale procedura risultano essere in percentuale il 17,8 per cento sul totale, mentre in Europa superano il 70%. A questo fine bisogna rivedere le linee guida di indirizzo che risalgono al 2010, rendendo più semplice l’accesso all’aborto farmacologico, evitando il ricovero ospedaliero, estendendo i limiti temporali, favorendo l’accesso alla telemedicina.
– oggi, i medici che si iscrivono alla specialità di Ginecologia e Ostetricia sanno che in Italia esiste una legge sull’aborto, ma il diritto delle donne ad accedere all’IVG è fortemente messo in discussione dalle alte percentuali di obiezione di coscienza, che in alcune regioni arrivano a toccare il 90 per cento dei medici. E’ necessario invece rendere effettiva l’applicazione della 194 in ogni struttura, assicurando il personale necessario;
– la definizione di percorsi per la nascita che garantiscano la sicurezza sia della madre sia del bambino. Questa sembra una affermazione banale, ma in tutto il mondo si riscontra che finora lo sviluppo dell’assistenza alla gravidanza ed al parto ha tenuto conto o solo della madre o solo delbambino. E’ molto importante evitare che venga rimessa in discussione la chiusura dei punti nascita con meno di 500 parti. E’ altrettanto importante che si promuovano strutture innovative per il parto, come i centri nascita gestiti dalle ostetriche.