La definizione di un’agenda di riforme in materia economica, sociale e del mercato del lavoro è essenziale per scegliere una strategia che consenta al nostro Paese di affrontare le conseguenze della pandemia e di intraprendere la strada di un nuovo modello di crescita sostenibile sul piano sociale e ambientale.
La salute e sicurezza dei cittadini per un verso e la lotta alle disuguaglianze attraverso il sostegno alle famiglie, al lavoro e alle imprese per l’altro, sono i due princìpi fondamentali che devono ispirare tutte le azioni necessarie alla ripresa delle attività economiche e produttive.
È bene provare a distinguere tra interventi immediati, di resistenza, necessari a consentire la riapertura delle attività e ad attutire gli effetti sociali, e interventi di più ampio respiro che scaturiscano dall’esperienza di questi mesi; non dobbiamo però sottovalutare che ciò che avviene e si fa oggi condiziona in modo decisivo assetti ed equilibri futuri.
La tempestività di questi interventi è un fattore decisivo perché gli effetti sociali stanno aggravando le distanze tra ricchi e resto della società, nel mondo del lavoro, tra uomini e donne, tra regioni e all’interno degli stessi territori.
Centralità della Sanità e del welfare, nuovo ruolo delle politiche pubbliche per la crescita e la tutela dell’ambiente, riunificazione del lavoro: su questi aspetti occorre agire in discontinuità con il passato.
È in corso, in Italia e in tutta Europa, una dura battaglia politica tra i fautori di un rapido ritorno ai canoni economici e sociali in vigore prima dell’irruzione del Covid 19 e coloro che vogliono superarli a favore di un nuovo modello di sviluppo sostenibile e inclusivo.
Questa battaglia rappresenta per la maggioranza e il governo, nati in circostanze straordinarie, un esame di maturità. La fase di emergenza, anche rispetto ad altri Paesi e al netto degli errori commessi, è stata ben gestita, come pure quella attuale di difesa dell’apparato produttivo, del lavoro e di tutela del reddito.
Riteniamo che questo sia il momento per indicare una prospettiva di rilancio che possa unire le forze migliori del Paese e realizzare un programma di riforme con l’obiettivo di rendere l’Italia più giusta e più moderna.
Come forza della sinistra e parte della maggioranza proponiamo di ragionare sulla relazione tra le misure assunte in Italia e quelle in via di approvazione in Europa, sulla connessione tra l’equilibrio del bilancio dello Stato, l’esigenza di una profonda riforma fiscale e l’ammodernamento del sistema di welfare in chiave universalistica.
Riteniamo fondamentale che, superando il paradigma neoliberista, si stabilisca un rapporto più equilibrato tra Stato e mercato a partire dalla definizione di una politica industriale che consenta al nostro sistema economico e sociale di intraprendere in pieno la via alta dello sviluppo nella competizione internazionale. Gli investimenti a favore dell’istruzione, della ricerca e della formazione permanente devono essere considerati una condizione necessaria per procedere in questa direzione.
Questa prospettiva può avere successo solo con il contributo attivo delle lavoratrici e dei lavoratori.
Partendo dall’attuale frammentazione del lavoro e dal conseguente indebolimento della qualità della nostra democrazia, riteniamo che sia necessario realizzare un sistema di diritti universali e approvare nuove regole sulla rappresentanza e la democrazia come condizione minima per ricostituire l’unità del lavoro e avviare una dinamica di crescita dei salari.
Sul piano più strettamente politico siamo convinti che la ricostruzione della sinistra debba essere fondata esplicitamente sulla centralità della forza del lavoro e sulla sua rappresentanza come leva per la trasformazione della società, superando debolezze culturali e suggestioni politiche di una fase ormai alle nostre spalle.
Le misure del governo
Sosteniamo le scelte operate finora dal governo per rispondere agli effetti del lockdown: i provvedimenti a tutela del lavoro e le nuove misure di sostegno al reddito, gli aiuti alle famiglie e alle imprese, gli investimenti nella sanità.
L’esplosione della pandemia ha richiesto l’adozione di risposte inedite come la sospensione dei licenziamenti in primis e, attraverso una straordinaria mobilitazione di risorse pubbliche, l’estensione degli ammortizzatori sociali per sostenere il reddito dei lavoratori dipendenti, il bonus per gli autonomi e le garanzie per la liquidità alle imprese. E’assai rilevante l’attivazione del golden power e la sua applicazione, inedita, anche al mercato intra-UE, a tutela delle nostre aziende strategiche.
È positivo che il Decreto Rilancio, oltre a prolungare i provvedimenti già assunti, contenga misure di sostegno al reddito per coloro che sono rimasti fuori dalle tutele previste dal CuraItalia: colf e badanti, stagionali ed intermittenti, chi ha perso il lavoro nei mesi precedenti e chi lavora in nero.
L’istituzione di una misura ad hoc, reddito temporaneo di emergenza, è molto importante perché assicura un sostegno al reddito per quasi 3 milioni di cittadini che ne sono privi, così come il prolungamento della Naspi e il bonus per colf e badanti.
Siamo favorevoli alla regolarizzazione dei cittadini extracomunitari per una questione di elementare giustizia: essi vivono come fantasmi, senza diritti né tutele. Occorre osservare che, allo stato attuale, questo provvedimento è parziale perché è limitato ai lavoratori del settore agricolo e a colf e badanti e non tiene conto del fatto che questi cittadini operano in tutti i settori produttivi, in particolare nelle costruzioni e nella logistica.
Riteniamo non accettabile l’ipotesi di tornare all’utilizzo dei voucher nell’agricoltura.
Il capitolo a sostegno diretto delle imprese si rafforza significativamente a partire dagli aiuti a fondo perduto per le PMI ed è importante che siano state introdotte norme specifiche a sostegno del turismo, delle strutture alberghiere e delle costruzioni: i comparti in maggiore sofferenza.
La ricapitalizzazione delle aziende, tema sul quale si è acceso un dibattito surreale, è una misura decisiva se si vuole favorire una ripresa che sia la più rapida possibile: non siamo alla vigilia di un massiccio piano di nazionalizzazioni, ma se non si agisce rapidamente rischiamo di perdere una quota importante della nostra capacità produttiva. È chiaro che, nel caso di intervento dello Stato, occorre prevedere meccanismi di controllo a garanzia del perseguimento dell’interesse pubblico.
Ci siamo impegnati con successo affinché nel Decreto Liquidità non venissero intaccate le condizioni stabilite per l’accesso all’erogazione dei finanziamenti, in particolare quelle riferite al vincolo della tutela dell’occupazione e all’impegno a non delocalizzare. Inoltre è stata introdotta una norma che prevede l’apertura di un c/c dedicato ai fini della tracciabilità dell’uso degli aiuti ricevuti e alla riduzione del rischio che il denaro pubblico finisca nelle tasche di imprese controllate dalle organizzazioni criminali.
Il giudizio sulla abolizione della rata Irap di giugno è, invece, negativo: l’assenza del vincolo della perdita di fatturato non è condivisibile perché non è selettiva dato che premia anche chi non ha subito perdite o ha incrementato il proprio fatturato.
Siamo soddisfatti che nell’ultimo decreto ci siano importanti poste di bilancio sulla sanità. Esse si sommano a quelle previste con la finanziaria e consentono l’avvio di un serio processo di rilancio del nostro sistema sanitario pubblico che parta dal potenziamento della rete territoriale, valorizzando sia le case della salute sia il ruolo dei medici di base, e dall’assistenza domiciliare. Il rafforzamento della rete ospedaliera consentirà la separazione tra ospedali e percorsi dedicati al Covid e il resto delle attività sanitarie; il contact tracing, le ulteriori assunzioni previste e le borse per gli specializzandi andranno a rinnovare e innervare la nuova struttura del SSN.
Il passaggio dal modello organizzativo ospedaliero a quello territoriale consentirà di elevare la qualità delle prestazioni e di colmare una distanza non solo fisica tra cittadini e la rete dei servizi, mentre l’uso dei big data e delle tecnologie informatiche sarà sempre più rilevante sul piano del monitoraggio e della prevenzione. E’ necessario sottolineare che i dati generati dai sistemi di calcolo devono essere gestiti dalla mano pubblica.
La pandemia ha mostrato luci e ombre del nostro sistema di ricerca: centri di eccellenza che sopravvivono con fondi insufficienti e grandi multinazionali in corsa per la gestione del vaccino.
Il sistema pubblico della ricerca sulle bioscienze e le biotecnologie è strategico e va rilanciato con investimenti che consentano di colmare la distanza con aziende e istituti privati.
È indispensabile risolvere il nodo delle competenze tra Stato e Regioni, uno dei punti di maggiore sofferenza sia sul piano dell’efficienza sia su quello dei rapporti politici, insieme a quello della ridefinizione, del finanziamento e del monitoraggio dei LEA, per superare le inaccettabili disparità nella reale esigibilità del diritto alla salute.
Rispetto all’azione del governo, l’organizzazione del sistema scolastico e della mobilità sono i due aspetti che al momento destano forte preoccupazione perché impattano immediatamente sulla vita delle famiglie, sui tempi di vita e di lavoro e dunque sul contrasto alle disuguaglianze.
Il decreto rilancio, in vista della riapertura a settembre, prevede l’assunzione di nuovi insegnanti e investimenti straordinari sulla rete e sui dispositivi per gli istituti e per le famiglie, sull’edilizia scolastica al fine di adeguare gli spazi a disposizione. Sono misure positive ma non sufficienti.
L’incremento del sostegno ai centri estivi e alle attività extra-scolastiche, ricorrendo al terzo settore e alla cooperazione sociale, va incontro alle esigenze di lavoratrici e di lavoratori che hanno consumato parte considerevole delle proprie ferie in queste settimane e che, per ragioni economiche non potranno andare in vacanza.
Va colta l’opportunità di trasformare stabilmente gli Istituti in centri di aggregazione culturale, sociale e sportiva, aperti e fruibili tutto il giorno. Una prospettiva evocata da tempo ma realizzata finora in modo sporadico.
Il sistema dei trasporti non è nelle condizioni di svolgere il suo ruolo: al netto del numero di lavoratori che rimarranno in smartworking e di un diverso sistema di orari e turni, rimane un elevato numero di persone che hanno bisogno del trasporto pubblico. Si tratta di studenti e lavoratori, donne e uomini, italiani e stranieri che per ragioni economiche non possono affidarsi alla mobilità privata. Gli interventi di rafforzamento della infomobilità possono favorire un’organizzazione più razionale dell’esistente a vantaggio degli utenti, ma senza un piano di intervento rapido a settembre, con la riapertura delle scuole, la situazione, in particolare nelle aree metropolitane, sarà ingestibile.
Accanto agli incentivi alla cosiddetta mobilità alternativa occorrono misure di tamponamento che accompagnino una fase di transizione dalla quale si potrà uscire solo aumentando il fondo nazionale dei trasporti e prevedendo un piano di investimenti concentrato sulla mobilità pubblica.
Non si può nascondere la difficoltà che la macchina amministrativa, nelle sue diverse articolazioni, sta mostrando nella reale attuazione di quanto previsto dai provvedimenti varati. C’è uno scarto troppo ampio tra il dire e il fare che genera attesa e frustrazione per milioni di cittadini e di famiglie colpite da una improvvisa perdita di reddito.
Questo fenomeno mette a rischio la credibilità della politica e rilancia una critica generalizzata alla burocrazia e ai dipendenti pubblici, alla quale si risponde con una profonda riforma della pubblica amministrazione e con lo snellimento delle procedure burocratiche, come l’autocertificazione che il Decreto Rilancio comincia a prevedere.
Affrontare questo nodo è il modo più efficace anche per rispondere al tentativo di chi, evocando l’emergenza, punta ad indebolire il codice degli appalti intaccando garanzie e tutele poste a protezione della trasparenza e della legalità, del contrasto alle infiltrazioni criminali e dei diritti dei lavoratori.
Pensiamo che serva una riforma organica dello Stato a partire dalla revisione del Titolo V e della legge Delrio, per superare le sovrapposizioni tra Provincie, Comuni e Aree metropolitane che generano lentezze e inefficienza. Pensiamo anche al miglioramento qualitativo delle leggi approvate, troppo spesso farraginose, oltre che a una nuova organizzazione del lavoro della pubblica amministrazione che le tecnologie più innovative rendono possibile.
Insomma una vera e propria rivoluzione alla quale siamo tutt’altro che preparati. La burocrazia dello Stato andrebbe ricostruita e valorizzata, non contestata e umiliata come oggi avviene.
L’iter parlamentare offrirà la possibilità di avanzare proposte e modifiche al fine di migliorare i provvedimenti in essere e a questo scopo Articolo Uno e il gruppo parlamentare di LeU hanno promosso e promuoveranno una serie di confronti con le organizzazioni sociali.
Tutto il lavoro fatto e le correzioni che saremo capaci di apportare non saranno sufficienti però a contrastare l’azione della destra e di alcune forze economiche se l’attuale maggioranza tarderà a dotarsi di un impianto politico più solido e ad indicare una prospettiva condivisa per il Paese.
Lo diciamo da tempo: serve un patto di legislatura che consenta di passare dalla resistenza alla destra ad un progetto di trasformazione della società italiana.
L’azione dell’Italia in Europa
La crisi attuale, a differenza di quella del 2008, è simmetrica e generata da una causalità esterna ma, la diversa capacità di reazione dei singoli Stati nazionali, allargherà il divario già esistente tra i Paesi dell’Unione europea e aumenterà le disuguaglianze all’interno dei singoli Paesi.
Ecco perché, mentre il Governo conduce la difficile trattativa con gli altri Paesi europei, è indispensabile ingaggiare una battaglia culturale, politica e sociale che abbia una dimensione nazionale ed internazionale con l’obiettivo di rendere più giusta l’Italia e più forte la nostra casa comune europea.
Assumere una visione che abbia come fondamento il legame tra il nostro Paese, l’Europa e il contesto internazionale consente di affrontare a viso aperto la sfida nei confronti delle forze della destra radicale e nazionalista che propongono un ritorno alla centralità degli Stati nazionali: un progetto politico autoritario che, per il nostro Paese, sarebbe catastrofico per la tenuta dell’unità nazionale e per la gravità delle conseguenze di carattere economico e sociale.
La destra italiana sta scommettendo sul fallimento della trattativa in corso a Bruxelles per affermare la propria egemonia culturale nel dibattito pubblico e raccoglierne i frutti sul piano elettorale senza rinunciare all’idea di un’uscita unilaterale dall’Euro.
La nostra posizione è radicalmente diversa.
Occorre riconoscere che all’affidamento al vincolo esterno, europeo e atlantico, come leva per la modernizzazione del Paese, non ha fatto seguito una conseguente e duratura azione riformatrice sul piano interno.
L’egemonia del pensiero liberista ha potuto poggiare anche su un pessimismo di fondo della classe dirigente riguardo alla capacità della società di intraprendere la via alta dello sviluppo nella competizione internazionale.
L’analisi critica del recente passato comporta il superamento sia di ogni residua forma di subalternità al liberismo, sia l’esercizio attivo delle leve nazionali nella politica economica, accettando con coraggio ed ambizione la sfida della ridefinizione del ruolo dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro: questo è il terreno rispetto al quale bisogna marcare una chiara discontinuità.
Un’agenda di riforme sul piano interno e un’azione innovatrice in Europa
È sulla base di questa esigenza che abbiamo bisogno di partecipare da protagonisti alla riscrittura delle regole di fondo dell’Ue: il nostro obiettivo è il suo rafforzamento sia interno che internazionale, non il suo indebolimento o il suo sgretolamento.
Allo stesso tempo è sbagliata la posizione di coloro che esprimono una adesione acritica all’Europa che c’è.
L’attuale assetto non ha mai superato l’impostazione del trattato di Maastricht che prevedeva la nascita della moneta unica senza un parallelo processo democratico che attribuisse responsabilità crescenti alle istituzioni politiche comunitarie. Un assetto rigorista che ha favorito la competizione tra Stati membri piuttosto che la cooperazione solidale.
La gestione della crisi del 2008 è la prova di questo vizio di origine.
L’Europa è obbligata ad un salto di qualità sia sul piano economico, sociale e ambientale, sia su quello istituzionale, rafforzando l’impianto comunitario come segno della volontà di tenere uniti i destini dei Paesi che compongono l’Unione e che aderiscono all’Euro. Da questo punto di vista l’orientamento dei Paesi principali, a partire dalla Germania, è decisivo.
L’Italia deve spingere verso questo cambiamento.
Vi sono poi aspetti politici che riguardano la tenuta di un modello che coniughi democrazia e capitalismo.
Senza le correzioni al modello attuale, e in assenza di un deciso cambio di strategia, esiste il rischio concreto della dissoluzione dell’Europa. La tendenza è quella di un rafforzamento, sul piano globale, di modelli basati sul capitalismo di stato e sistemi politici dittatoriali o autoritari.
Nel vecchio continente ci sono i Paesi del blocco di Visegrad, in particolare l’Ungheria, che ispirano i sovranisti di casa nostra: se dovesse prevalere una soluzione come l’Italexit ciò comporterebbe un impoverimento valutabile in almeno un 30% del nostro reddito e della nostra ricchezza.
La tenuta dell’Unione e il suo rinnovamento passano dunque dalla consapevolezza della sfida in corso e dalla conseguente costruzione di una sostanziale unità interna che generi il rafforzamento dell’impianto comunitario.
Anche il ruolo internazionale dell’UE è fortemente limitato dal suo assetto e, a fronte di una recrudescenza del conflitto tra Usa e Cina che sta delineando un nuovo bipolarismo globale, emerge tutta l’urgenza di un progetto politico capace di tradurre la potenza economica e commerciale europea in una corrispondente potenza politica. Un progetto che rilanci il multilateralismo e respinga i tentativi di rendere l’Europa irrilevante nelle relazioni internazionali.
Questa è la sfida che l’Italia, assieme ad altre nazioni, deve portare sul tavolo a Bruxelles per cambiare l’attuale assetto e adeguarlo alla sfida globale.
Innanzitutto ponendo la questione dell’armonizzazione delle regole sui capitali, sul mercato del lavoro e sul fisco e favorendo la ripresa degli investimenti, introducendo la cosiddetta Golden rule.
Il primo intervento della Commissione europea è stato l’attivazione della clausola di salvaguardia generale del patto di stabilità e crescita: questo consentirà ad un Paese come il nostro di allungare il tempo che impiegheremo per rientrare dal disavanzo che stiamo accumulando.
Il secondo intervento riguarda l’allentamento delle regole sugli aiuti di Stato, in particolare verso le PMI. Questa misura ha consentito di introdurre sia nel CuraItalia che nel Decreto Liquidità importanti sostegni dedicati alle aziende.
La commissione ha poi liberato 37 miliardi di euro dai fondi delle politiche di coesione allentandone i vincoli d’uso sia sul piano territoriale-regionale sia tematico.
Le prime due misure investono, sia pure in forma temporanea, aspetti essenziali delle regole dell’Unione come i vincoli posti alle politiche di bilancio, il ruolo dello Stato in economia e la concorrenza intraUE: la nuova situazione ha riaperto uno spazio di discussione per la politica che va occupato immediatamente.
Il Governo è impegnato in sede europea in una complessa trattativa che riguarda le misure urgenti per affrontare le conseguenze economiche e sociali generate dalla pandemia. Si tratta di quattro misure: gli interventi della BEI per 200 miliardi, l’istituzione del SURE, prestito di 100 miliardi finalizzato a finanziare la cassa integrazione, il Mes e il Recovery Fund.
Riguardo al Mes la lettera della Commissione ha cercato di fugare i timori sulle possibili condizionalità ma, ad oggi, permangono le preoccupazioni legate ad un possibile effetto stigma da parte dei mercati se il nostro Paese fosse l’unico ad accedere a questo meccanismo. Il risparmio annuo previsto sarebbe di circa 500-600 milioni di interessi a fronte di un prestito di 36 miliardi. L’Italia, entro l’anno, deve emettere o rinnovare titoli per 400 miliardi e rischierebbe una penalizzazione ben maggiore se i mercati percepissero il ricorso al MES come un segnale di difficoltà e quindi chiedessero interessi anche solo lievemente più alti di quelli attuali. Appare perciò saggio verificare l’atteggiamento di altri Paesi europei e attendere la conclusione del negoziato sul Recovery Fund anche per evitare di indebolire il governo nella trattativa in corso.
L’istituzione del Recovery Fund, i tempi per la sua entrata in vigore e la definizione delle sue caratteristiche esprimeranno il punto di equilibrio fra spinte diverse.
È di questi giorni la proposta della Commissione europea di 750 miliardi complessivi, 500 dei quali a fondo perduto. È una proposta più ambiziosa di quella franco-tedesca che era importante soprattutto per l’accettazione da parte della Germania di una, sia pur parziale, mutualizzazione del debito. L’obiettivo è quello di dotare di risorse ancora maggiori il Recovery Fund ma i passi avanti rispetto alle settimane scorse sono assai rilevanti.
La conclusione della trattativa consentirà di esprimere un giudizio ponderato: il Governo italiano ha sin qui ben condotto la battaglia per il rafforzamento degli interventi contro la crisi ed è stato determinante avere contribuito a costruire una alleanza tra diversi paesi tra i quali Francia e Spagna. Una alleanza che va coltivata e alimentata.
Occorre osservare che, finora, sono state decisive le misure attuate dalla BCE per stabilizzare la situazione finanziaria e impedire possibili attacchi speculativi ai debiti sovrani. La quantità e la qualità degli acquisti fatti e di quelli previsti non hanno precedenti e sono di gran lunga superiori al QE varato da Mario Draghi. La sentenza della corte costituzionale tedesca suggerisce di affrontare il tema della revisione dello statuto della BCE per uniformarlo a quello delle altre banche centrali nel mondo, come indicato nel più specifico documento di Articolo Uno sui temi europei elaborato ad Aprile.
Per l’Italia, infatti, è fondamentale riuscire a mantenere un equilibrio tra le misure che giungeranno dall’Unione e quelle messe in atto a livello nazionale. E’ la condizione minima per provare ad evitare un attacco speculativo basato sull’inevitabile innalzamento del debito e del deficit.
Gli interventi varati dal Governo, prima e durante la pandemia, valgono circa 10 punti di Pil, cioè 180 miliardi di euro. Se aggiungiamo che entro la fine dell’anno lo Stato deve rinnovare titoli per il debito pregresso per un importo di 230 miliardi arriviamo alla considerevole cifra di 400 miliardi da vendere sul mercato: sono cifre che non hanno precedenti e delineano tutta la portata storica della fase attuale.
Il problema della gestione congiunta dei livelli di debito eccessivi, al di là delle ipocrisie, rimane. Vi sono proposte come quella Visco, Saggi, Tedeschi, quella denominata P.A.D.R.E. e quella elaborata da Minenna che hanno la caratteristica di non comportare trasferimenti di risorse tra i diversi Paesi dell’Unione. Tutte queste proposte, tuttavia, presuppongono forme di garanzia congiunta. Su questo l’Italia deve insistere.
Nuove politiche pubbliche per la giustizia sociale e lo sviluppo sostenibile
Una stagione di riforme per l’Italia
Per passare dalla fase attuale, di tenuta e di resistenza, ad una prospettiva di rilancio su basi rinnovate, la politica ha il compito di delineare una agenda di riforme che incida sulla struttura economica e sociale del Paese.
La maggioranza ed il governo hanno la possibilità di aprire una nuova stagione politica. Per quanto ci riguarda riteniamo che occorra concentrare l’attenzione su quattro aspetti: il bilancio dello Stato e le sue modalità di finanziamento e di spesa; la politica industriale e il rapporto pubblico/privato; il mercato del lavoro e il sistema delle tutele e della rappresentanza; il welfare e la sua aderenza alla struttura della società.
Il primo aspetto chiama in causa una riforma fiscale che sta in piedi solo grazie ai prelievi sui redditi da lavoro e che incide pochissimo sulle ricchezze finanziarie.
In 40 anni la quota dei redditi di lavoro rispetto al Pil è scesa dal 65% al 50%.
Il rapporto tra i prelievi sul lavoro e i prelievi sugli altri redditi (profitti, interessi, royalties etc.) è di 3 a 1, rispetto ad una ripartizione del reddito di 47% a 53%. Dunque il lavoro ha subito un enorme impoverimento ed è ipertassato rispetto a profitti, rendite e patrimoni.
Pensiamo ad una riforma che coniughi progressività, lotta all’evasione a all’elusione e nuove misure di assistenza sociale.
Innanzitutto bisogna riformare l’amministrazione dotandola dei mezzi che le nuove tecnologie hanno già messo a disposizione per strutturare un efficace sistema di verifiche e riformare la Privacy che oppone resistenza al trattamento dei dati finanziari personali.
In secondo luogo occorre ricostituire l’unità della base imponibile reintroducendo tutti i redditi attualmente esenti o tassati con aliquote ridotte. In alternativa si può trasformare l’Irpef in un’imposta sui soli redditi da lavoro e affiancarle un’imposta autonoma personale e progressiva sui redditi patrimoniali.
Le aliquote possono essere sostituite da una funzione matematica che regoli la progressività mentre va ridotto il carico fiscale sul ceto medio e i redditi da lavoro e da pensione. A questo proposito appare fortemente discriminatoria, rispetto a lavoratori con lo stesso reddito, l’aliquota del 15% applicata alle P. Iva fino ai 65.000 euro.
Una terza misura è la drastica riduzione della soglia di utilizzo del contante (100 euro) e incentivi all’uso della moneta elettronica.
La tassazione delle imprese è fortemente condizionata dalla concorrenza fiscale a livello internazionale che ha fatto scendere le aliquote dell’imposta sulle società in tutto il mondo.
Per quanto riguarda le multinazionali occorre stabilire che esse debbano presentare un unico bilancio mondiale delle loro attività e poi ripartire i profitti e la tassazione tra i diversi Paesi secondo criteri condivisi. Questa sarebbe una prima risposta ai temi sollevati dalla richiesta di aiuti da parte di FCA.
Non è più rinviabile una discussione che affronti con rigore l’esistenza di paradisi fiscali interni all’Europa e alla stessa zona euro. In questo senso è condivisibile la proposta di non concedere aiuti finanziari alle imprese che hanno la sede fiscale in uno di questi paradisi fiscali. L’approvazione di una proposta di LeU in commissione finanze alla Camera va in questa direzione.
Se la tenuta del bilancio dello Stato è legata a doppio filo alle misure che saranno assunte nell’UE e alla riforma fiscale che il Paese dovrà affrontare, anche il capitolo degli investimenti e delle politiche industriali va impostato tenendo insieme la dimensione nazionale e quella internazionale.
Questo secondo aspetto, delle politiche di sviluppo, è decisivo.
L’attuale scenario mostra una regressione della globalizzazione che, qualora si rafforzasse, potrebbe avere effetti duraturi sul quadro macroeconomico e sugli equilibri politici mondiali. Di fronte a questa tendenza abbiamo già verificato la fragilità di una catena del valore troppo frammentata e dispersa, e riteniamo opportuno ricorrere a misure che consentano di accorciare e riunificare i processi produttivi.
È in questo quadro che vanno collocate le proiezioni sulla caduta del Pil, dei tributi e dell’occupazione: l’Italia, assieme a Francia, Spagna e Portogallo, sarà uno dei Paesi più colpiti dagli effetti della pandemia sul piano della tenuta sociale, della produzione e dell’occupazione.
Stime ragionevoli prevedono, stante l’azione di sostegno della BCE, una riduzione del Pil 2020 tra il 9 e il 10%, il rapporto deficit/Pil al 20%, un calo dell’occupazione superiore al 6% e una perdita del reddito disponibile complessivo di oltre il 10%.
L’Italia è l’ultima, tra le più importanti nazioni, a non aver ancora raggiunto il livello di produzione antecedente alla crisi del 2008: l’accumulazione di ulteriore ritardo a seguito della pandemia indebolirebbe significativamente il nostro peso sul mercato europeo e internazionale fino a mettere in discussione la permanenza nell’eurozona. Ecco un’altra ragione per affermare una concreta discontinuità con le politiche di austerità.
Da dove ripartire?
Innanzitutto da un grande programma pluriennale di investimenti pubblici su scuola, università e ricerca. La spesa in questo caso va considerata investimento nel capitale umano, un pre-requisito per una società che vuole competere con le nazioni più avanzate del pianeta.
Alla cura del capitale umano devono essere affiancati gli investimenti per la digitalizzazione e la ricerca di base che sono due aspetti centrali per una modernizzazione che abbia il segno dell’equità e, rispetto ai quali, siamo in ritardo sia sul versante pubblico sia su quello privato. In questo senso la risoluzione della diatriba tra i due soggetti presenti sulla banda larga, a beneficio pubblico, non è rinviabile.
La sfida per portare l’Italia lungo la via dello sviluppo economico sostenibile sul piano sociale ed ambientale, è il vero banco di prova della classe dirigente.
All’inizio dell’anno l’Europa stava lanciando le nuove strategie sul Green new deal, integrato alla linea just transition, decarbonizzazione ed economia circolare: il rischio è che ora si riaffermi il conflitto tra economia e ambiente, tra occupazione, salute e condizioni di lavoro.
Riteniamo, al contrario, che il Green new deal europeo sia strategico per aumentare la crescita e la resilienza di lungo periodo del nostro sistema produttivo.
Se vogliamo davvero un nuovo modello economico dobbiamo nuovamente tornare al tema del contrasto alle disuguaglianze: la transizione ecologica può avere successo solo se è socialmente desiderabile. Politica industriale ed ambientale devono integrarsi e, attraverso le relazioni industriali e i processi di formazione,
i benefici delle innovazioni tecnologiche legate alla green economy, oltre a ridurre gli impatti ambientali per la salute, devono aumentare la quota di reddito del lavoro.
Ad esempio, pensiamo ad uno spostamento progressivo dei 17 miliardi di sussidi, che ogni anno vengono erogati alle attività riconosciute dannose per l’ambiente, verso le costruzioni per favorire l’efficientamento energetico di edifici pubblici e privati. Un intervento simile sarebbe vantaggioso sia sul piano ambientale sia su quello occupazionale.
Coniugare lavoro e ambiente è fondamentale per ridefinire il ruolo del Paese e la sua specializzazione nella competizione europea ed internazionale.
Rispetto a questo tema, un criterio fondamentale che deve guidare l’azione del decisore politico è quello della coesione territoriale e del riequilibrio tra il Nord e il Sud. L’attivazione della clausola che prevede l’attribuzione del 34% degli investimenti pubblici riservati al Mezzogiorno, deve essere finalizzata alla modernizzazione delle reti infrastrutturali materiali ed immateriali, alla tutela del patrimonio paesaggistico e culturale, alla riqualificazione dei centri storici, perseguendo un modello di sviluppo aderente ai punti di forza della società meridionale ed evitando l’errore di voler applicare formule uguali in territori che hanno profonde differenze.
Il rinnovato ruolo attivo dello Stato in economia, generato dalle misure varate a sostegno del lavoro, delle famiglie e delle imprese, ha già aperto una nuova stagione di politiche pubbliche da cui può scaturire un diverso equilibrio del rapporto tra interessi privati e tutela degli interessi pubblici.
Tale ruolo, per quantità e qualità, è in netta discontinuità con il passato. Vi sono forze ed interessi che, dopo aver invocato interventi pubblici per quasi 200 miliardi di euro, vorrebbero che si tornasse rapidamente alle politiche economiche precedenti scaricando il costo sociale e finanziario della crisi sui lavoratori e i pensionati. Per impedire che ciò avvenga dovremo batterci con la massima determinazione.
La presenza pubblica nell’economia presuppone una visione del Paese e una coerente politica industriale. La prima cosa da fare, quindi, è quella di definire i settori strategici nei quali prevedere la presenza pubblica e le sue forme di gestione e di organizzazione.
Sarebbe opportuno unificare le partecipazioni statali per una loro gestione razionale al fine di effettuare investimenti a lungo termine in settori in cui le imprese private non sono in grado o non vogliono assumere rischi. In altri termini si dovrebbe passare da una gestione finanziaria volta a massimizzare i dividendi del Tesoro, come quella attuale, ad una gestione orientata alla crescita e allo sviluppo del Paese. Le holding così create dovrebbero essere totalmente indipendenti.
La creazione di una agenzia delle politiche pubbliche che attragga le migliori energie del Paese è coerente con una visione che attribuisca allo Stato non solo un ruolo di regolatore del mercato, ma un ruolo di imprenditore capace di riorganizzare e valorizzare le filiere produttive.
Si tratta di operare un rovesciamento del rapporto tra interessi pubblici e privati superando il dogma neoliberista dei decenni precedenti. È la politica, in nome e per conto dell’interesse dei cittadini, che deve regolare e orientare il mercato e non viceversa.
In questo senso dobbiamo osservare che la presenza dei privati nel settore dell’acciaio, con alcune lodevoli eccezioni, non ha consentito la mole di investimenti necessari per sostenere la produzione in una fase caratterizzata da una serrata competizione internazionale. L’industria italiana ha bisogno dell’acciaio e il governo ha la responsabilità di definire un piano di intervento pubblico, diretto, allo scopo di preservare un settore strategico per il Paese.
A proposito di settori strategici e di filiere produttive, la richiesta di un cospicuo prestito dalla FCA, garantito dallo Stato, sta provocando un acceso dibattito. La nostra opinione è che il prestito debba essere concesso e che la politica abbia il dovere, nel perseguire l’interesse dei cittadini, di chiedere che quelle risorse siano investite nel nostro Paese per sviluppare la produzione e tutelare l’occupazione. In merito alla annunciata fusione con Psa-Peugeot riteniamo che il governo italiano debba farsi promotore di un confronto con l’omologo governo francese, detentore del 5% della Peugeot, per discutere le prospettive industriali del nuovo gruppo e difendere la sua presenza in Italia. Se questo non fosse sufficiente non si può escludere a priori un ingresso dello Stato nell’azionariato di FCA in analogia con quanto fatto in Francia.
Una seria politica industriale deve tenere conto del fatto che la forza della nostra struttura produttiva è fatta di aziende di medie dimensioni che, nel loro settore, fungono da driver e hanno attorno un numero consistente di aziende piccole e piccolissime che svolgono un ruolo complementare nella catena del valore. Questa struttura, pure indebolita dalla crisi del 2008, è particolarmente ricca nel settore della manifattura che è il punto di forza della nostra economia e ci consente di rimanere agganciati ai mercati europei ed internazionali.
Questo sistema può essere rafforzato con interventi a sostegno dell’innovazione di processo per aumentare la produttività, per l’implementazione dell’uso delle nuove tecnologie, per accrescere la sostenibilità sociale e ambientale, per incentivare la crescita e la riaggregazione delle aziende stesse.
In definitiva pensiamo alla politica economica della mano pubblica come leva per l’inserimento del nostro sistema produttivo nei settori più innovativi e ad alto valore aggiunto e per lo sviluppo di un modello economico sostenibile fondato sulla coesione sociale e la qualità del lavoro.
La forza del lavoro per cambiare l’Italia
Un piano di modernizzazione e di rilancio del nostro apparato produttivo su basi rinnovate presuppone la riunificazione del mondo del lavoro e l’istituzione di un sistema di diritti e di tutele omogenee: un nuovo Statuto dei lavori.
Le forme contrattuali vanno ridotte, semplificate e dotate di un sistema di tutele comuni mentre quelle atipiche e poco remunerate vanno fortemente limitate fino alla loro abolizione: la riunificazione del lavoro passa attraverso il riconoscimento di un corpus di diritti fondamentali quale che sia la forma contrattuale.
La frammentazione della catena del valore e la precarizzazione del mercato del lavoro sono il risultato di tendenze della globalizzazione che, sorrette da un robusto impianto ideologico, hanno accentuato la concorrenza sul mercato dei capitali e del lavoro, svalutando quest’ultimo: la società si è divisa tra un nucleo integrato e vincente e una massa crescente, esclusa e sconfitta.
Questo processo di espulsione di milioni di cittadini dalle tradizionali tutele sociali e giuridiche ha indebolito la nostra democrazia: la funzione di inclusione nello Stato democratico del mondo del lavoro e della parte più debole della popolazione svolta dai partiti politici e dalle organizzazioni sociali e sindacali si è fortemente ridotta.
È cresciuto un sentimento di estraneità e di distanza dalla politica e dalle istituzioni che ha gonfiato le vele di movimenti e partiti che hanno assunto posizioni anti-establishment e di aperta contestazione del vecchio patto costituzionale.
Già prima della pandemia era in corso un processo di revisione critica, sia culturale che politica, basato sul logoramento del modello egemone in questi ultimi 40 anni. La spinta decisiva per accelerare l’avvio di una fase di riforme può arrivare solo da una rinnovata unità del mondo del lavoro e dalla ricostruzione di un partito politico fondato su di essa.
Le relazioni industriali vanno riorganizzate secondo il principio della rappresentanza sulla scia del dettato costituzionale. Mettiamo la rappresentanza al primo posto perché senza regole di gioco condivise il campo è diventato impraticabile.
Una legge sulla rappresentanza serve in primo luogo per restituire centralità agli accordi ed eliminare il fenomeno delle centinaia di contratti pirata con conseguente dumping ai danni dei lavoratori e delle imprese che rispettano la legge.
In secondo luogo si potrebbe risolvere nella maniera più corretta la questione del salario minimo che verrebbe codificato da un contratto esigibile erga omnes: in questo modo si innalzerebbe il salario di una parte assai consistente delle lavoratrici e dei lavoratori che opera nei settori meno qualificati del terziario, colpita ciclicamente dalle ristrutturazioni e dai fallimenti.
Un’operazione del genere sarebbe molto importante sia per riattivare il processo di inclusione che per la ricostruzione della rappresentanza politica e sociale.
L’aumento dei salari è una priorità: la curva dei salari è sostanzialmente piatta da almeno trenta anni e, confrontandoli con la media europea, le retribuzioni in Italia sono notevolmente inferiori a quello dei Paesi più ricchi.
Negli ultimi quaranta anni la quota delle retribuzioni rispetto al Pil è passata dal 65% al 50%, considerando che il lavoro dipendente ne detiene il 40% e il lavoro autonomo il 10%. Il 15% della ricchezza nazionale si è spostata dal lavoro al capitale sotto la forma di rendite finanziarie e patrimoniali. Si spiega anche così la limitata crescita della produttività.
Un razionale sistema di relazioni industriali che accresca il potere contrattuale dei lavoratori può agevolare il successo delle rivendicazioni per l’innalzamento delle retribuzioni, anche considerando che la metà dei lavoratori è in attesa del rinnovo del contratto.
In Italia abbiamo una forte incidenza di due fenomeni distinti ma strettamente collegati che rendono il nostro sistema produttivo più arretrato e più ingiusto rispetto al resto d’Europa: il numero di infortuni e di morti sul lavoro e il lavoro nero.
Sulla salute e sicurezza, nell’immediato, abbiamo l’esigenza di far applicare i nuovi protocolli pensati per la ripartenza mentre chiederemo di accelerare l’iter parlamentare della nostra proposta di legge.
La lotta al lavoro nero presuppone la volontà di superare la tolleranza che la politica ha storicamente dimostrato verso di esso considerandolo una sorta di ammortizzatore e fluidificante del sistema-Italia nella competizione internazionale.
È al contrario un potente freno alla modernizzazione sul piano economico e una inaccettabile ingiustizia su quello sociale. Se vogliamo riorganizzare la rappresentanza politica su basi nuove e assestare un colpo decisivo alla destra dobbiamo procedere con proposte nuove e radicali per combattere questo male nazionale.
Il lockdown ha avuto altre importanti ricadute. Ad esempio ha provocato una gigantesca riorganizzazione delle forme e dei tempi di lavoro: milioni di persone operano con il telelavoro o in smartworking.
Riteniamo che la modalità del lavoro agile sia, a certe condizioni, un’opportunità da cogliere. Non possiamo però sottovalutare che questa esperienza è il frutto dell’emergenza mentre, per un reale cambiamento, è necessario il passaggio da una cultura del controllo ad una cultura della responsabilità. La contrattazione è fondamentale per definire modi e tempi di svolgimento della prestazione, qualità della connessione e disponibilità di dispositivi adeguati.
La riflessione culturale su questo fenomeno, l’eventuale aggiornamento legislativo e i provvedimenti di governo dovranno confrontarsi con un dato di fatto: se ben organizzato il lavoro agile consente un incremento della produttività fino al 15%, un aumento che può essere redistribuito sotto forma di riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. La riduzione dell’orario, legata all’incremento della produttività, non può più essere un argomento da convegno: milioni di disoccupati in più e contrazione del Pil suggeriscono misure che ci facciano avvicinare agli standard europei e di cancellare il part-time involontario.
Occorre prestare attenzione al fatto che lo smartworking non diventi, invece, un elemento di appesantimento dei carichi di lavoro complessivi per la componente femminile della società. Un effetto immediato del lockdown è stato l’aumento del lavoro di cura, in particolare verso l’infanzia, a causa della chiusura delle scuole, e ciò comporta il rischio concreto di un aumento delle disparità già esistenti. Il Presidente Conte nel suo discorso di insediamento annunciò un piano nazionale per gli asili nido gratuiti che rispondesse all’esigenza delle famiglie e ad una politica di inserimento della forza lavoro femminile nelle attività produttive: questa proposta è più urgente che mai.
È importante intervenire per rafforzare le politiche di conciliazione favorendo una più equa distribuzione dei carichi di lavoro familiare. In questo modo aumenteranno i potenziali benefici di questa forma di lavoro e si potranno ridurre i rischi dell’uscita dall’attività lavorativa di un gran numero di donne.
Sappiamo, infatti, che già prima della crisi le donne lavoravano meno, guadagnavano meno e accumulavano minore anzianità. Aggiungiamo che vi sono alcuni settori, come servizi di alloggio e ristorazione e quelli legati alla cultura e al tempo libero nei quali le donne occupate sono più del 50%, settori che potrebbero subire ricadute occupazionali molto pesanti.
Infine, pur apprezzando l’enorme mobilitazione di risorse e l’estensione senza precedenti delle tutele, questa vicenda ha messo in luce la frammentazione e la farraginosità del welfare italiano. Una pluralità di strumenti parziali, competenze disperse tra Stato, regioni ed enti locali e conseguenti conflitti istituzionali: sono stati utilizzati gli strumenti a disposizione rinunciando, per ora, all’innovazione.
Ad esempio è doveroso avviare una riflessione che porti ad un radicale ripensamento del mondo delle P.Iva che, nonostante le misure adottate dal governo, rischiano di pagare più di altri questa pandemia. Non basta il bonus da 600 euro: dobbiamo immaginare un sistema di welfare che, con gli opportuni interventi fiscali, includa anche questo universo in una rete di servizi azzerando, contemporaneamente, l’ingiusto fenomeno delle false P.Iva. Analogo discorso vale per gli operatori dello spettacolo e della più vasta filiera culturale che ha un peso economico rilevante. Inquadrati, in genere, come lavoratori intermittenti, molti di essi non godono di tutele adeguate a causa di norme lacunose che vanno riviste riconoscendo, una volta per tutte, l’essenzialità per il nostro Paese di questo settore e dei soggetti che lo animano.
La pandemia ci consegna una situazione analoga al dopo-guerra quando si posero le basi dello stato sociale del ‘900: occorre pensare al disegno dello stato sociale del futuro. Sistemi pensati per il lavoratore maschio dell’impresa manifatturiera del ‘900, sono intrinsecamente incapaci di rispondere alle esigenze di questo mondo lavorativo, caratterizzato dalla frammentazione delle forme contrattuali e delle tutele di welfare nonché, per troppi lavoratori, da retribuzioni molto basse che impediscono di mettere da parte un adeguato risparmio a fini precauzionali.
Un nuovo sistema di welfare va pensato in stretta connessione con una seria riforma fiscale che ricostituisca l’unitarietà della base imponibile e la sua progressività. Vogliamo superare un sistema fatto di tutele corporative, di settore, territoriali e, in definitiva, clientelari a favore di un impianto universalistico e dotato di pochi ma efficaci strumenti di tutela.
Gli ammortizzatori sociali devono essere unificati e trasformati in uno strumento semplice che preveda un sistema di formazione e aggiornamento professionale: questo secondo aspetto va considerato come diritto fondamentale del lavoratore alla formazione permanente. Non possiamo lasciare soli milioni di cittadini davanti alla dinamica del mercato del lavoro e alle contrazioni improvvise del ciclo economico provocate da uno shock esterno come il Covid-19.
Il Reddito di Cittadinanza va diviso più chiaramente in due canali, quello assistenziale e quello dell’inserimento lavorativo che va implementato. Per il piano assistenziale va rivisto il criterio della residenza che discrimina gli extracomunitari e la scala di equivalenza che penalizza le famiglie numerose e con minori, mentre per quello lavorativo va rapidamente portato a termine il processo di riforma accentuando il ruolo delle politiche attive.
Un altro cruciale aspetto della nostra vita quotidiana è emerso con tutta la sua drammaticità sociale anche sul piano delle relazioni inter-personali. Parliamo della casa e delle enormi differenze che ci sono state tra chi aveva a disposizione appartamenti vivibili e chi, al contrario, ha dovuto affrontare i mesi del lockdown in ambienti ristretti, senza avere spazio sufficiente per il lavoro, per le lezioni a distanza o per coltivare la propria sfera affettiva.
L’Italia è priva da tempo di una strategia nazionale sulla casa e gli alloggi popolari e questa carenza è uno dei fattori che ha contribuito maggiormente alla crescita delle disuguaglianze e di un sentimento diffuso di precarietà. Si può iniziare con la ristrutturazione dei tanti alloggi vuoti per realizzare soluzioni a consumo di suolo zero e consentire ai privati di mettere a disposizione alloggi a canone calmierato per le fasce meno abbienti che oggi faticano a trovare una casa in affitto. Queste politiche possono essere finanziate anche intercettando l’enorme rendita generata dalla trasformazione dei centri storici delle città d’arte in tutto il Paese.
Siamo consapevoli del rischio, anzi dell’alta probabilità che molte, se non tutte, delle idee e delle proposte avanzate possano rimanere un elenco di buone intenzioni.
Di fronte ai rivolgimenti in corso emerge ancora una volta l’assenza di un partito politico strutturato, dotato di un impianto ideologico chiaro, di una classe dirigente solida, radicato nella società e su tutto il territorio nazionale.
Crediamo però che sia giunto il termine per le lamentazioni e i rimpianti sul passato: il processo di indebolimento dei corpi intermedi e la crisi della rappresentanza sono fenomeni in corso da decenni e non si sono arrestati.
Con questa consapevolezza, Articolo Uno lavora al proprio radicamento sul territorio e al rafforzamento della propria organizzazione, mettendosi a disposizione di un processo di elaborazione allo scopo di contribuire a dare vita ad un grande partito ecosocialista che rappresenti la forza del lavoro e si ponga come obiettivo la trasformazione in senso progressivo della società.
Un soggetto che assuma fino in fondo la sfida della transizione ecologica, che abbia nelle sue radici la cultura della differenza di genere e del personalismo cristiano.
Per perseguire questo obiettivo occorre un movimento politico nazionale ed europeo. Un movimento che ancora non c’è ma del quale si sente la massima urgenza.