Intervista a la Repubblica
di Michele Bocci
Farà un decreto se il Parlamento non approva rapidamente la legge che inasprisce le pene per le lesioni al personale sanitario. Ma secondo il ministro della Salute Roberto Speranza la norma, da sola, non può bastare. Dopo anni di definanziamento, che soprattutto in certe Regioni ha peggiorato i servizi e quindi scatenato le proteste e la rabbia di molti utenti, è necessario riprendere gli investimenti sulla sanità. E così avviare un cambiamento culturale.
Ministro, le aggressioni ai medici sono in aumento. Quando arriverà la nuova legge che prevede pene più severe?
«E stata già approvata al Senato, all’unanimità. È positivo che quando si tratta di difendere il nostro Servizio sanitario nazionale e i suoi operatori si mettano da parte le divisioni della politica e si faccia esclusivamente l’interesse del Paese. Ora si discute in commissione alla Camera, ci sono già state audizioni. Auspico che il provvedimento venga trasformato in legge prima possibile».
I ritardi nell’approvazione delle norme non sono rari. Cosa succede se anche questa resta troppo a lungo alla Camera?
«Ho massimo rispetto per il Parlamento, ma se mi dovessi rendere conto che dopo i primi mesi di questo 2020 non si è arrivati in fondo, che ci sono rallentamenti, userò i poteri che la Costituzione garantisce al governo nei casi di emergenza e urgenza e proporrò un decreto. È chiaro che su questo tema bisogna fare presto».
Le pene più dure ridurranno gli episodi di violenza in corsia?
«La norma è utile, perché dà un segnale di attenzione da parte dello Stato, che in questi casi deve essere fermo e forte. Parliamo di fatti inaccettabili, di violenze contro chi si prende cura dei nostri malati. È chiaro che però da sola non basta, c’è bisogno di molto di più».
Di che cosa?
«Intanto, bisogna avviare una battaglia culturale per far comprendere a fondo l’importanza di questi professionisti per la società. Il servizio sanitario è una pietra preziosa che ci hanno donato i nostri genitori e chi ci lavora svolge una missione di tutela del diritto alla salute come previsto dall’articolo 32 della Costituzione».
Come si conduce la battaglia culturale?
«Per cominciare chiudendo la stagione di tagli e definanziamento al servizio sanitario, che andava avanti da anni. Come fa lo Stato a dire che vuole difendere i camici bianchi, gli infermieri e gli altri professionisti degli ospedali se poi è il primo a non investire su di loro? Così è poco credibile. Noi ci stiamo muovendo, coni due miliardi in più sul fondo sanitario, con altri due miliardi per edilizia e innovazione, e con le politiche sul personale, come ad esempio la decisione di rimodulare verso l’alto i tetti per le assunzioni. Ora abbiamo sbloccato anche i fondi per la retribuzione individuale di anzianità, liberando risorse».
Quale aiuto pratico danno le risorse al personale che rischia di subire violenze?
«Spazi migliori e organici più ampi, ad esempio in aree delicate come i pronto soccorso, permettono di rispondere prima ai cittadini e comunque di ridurre reazioni incontrollate anche da parte dei più esagitati».
A cosa è dovuta tanta rabbia da parte delle persone?
«Anche a un periodo troppo lungo di definanziamento che in alcuni casi ha reso il servizio sanitario meno capace di dare risposte efficaci ai cittadini. Si tratta di un punto delicato. Sia chiaro: io penso che gli atti di violenza siano sempre ingiustificabili, non è che se c’è la coda al pronto soccorso sei autorizzato a picchiare. Però è lampante che dove i servizi sono meno efficaci ci sono più facilmente situazioni di disagio, e nel disagio le reazioni sono purtroppo incontrollabili. Non è un caso che in questi giorni le situazioni più difficili siano nel Mezzogiorno, dove si è pagato il prezzo più alto in fatto di riduzione delle risorse».
In molti ospedali dove erano presenti, le forze dell’ordine non ci sono più o fanno turni più brevi.
«Mi confronto spesso con il ministro dell’Interno Lamorgese, che stimo, per parlare anche di questi temi, ma insisto: bisogna agire in primis sulla leva culturale oltre che sulla quella repressiva».