Trattativa: così, da parlamentare, ho capito che quella sentenza è giusta

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Ad ascoltarlo era simpatico, non nego. Era venuto per un’audizione in Commissione d’inchiesta sulle mafie, nel febbraio 2014, perché aveva presieduto una commissione ministeriale per studiare soluzioni di contrasto più efficaci contro la criminalità mafiosa. Non avevo ben capito alcune delle sue espressioni un poco barocche, dei suoi dubbi “tecnico-giuridici”, come si era schermito più volte. Però, ripeto, sembrava un anziano gentiluomo. I meridionali – poi – a me, lombarda tutta lavoro e adrenalina ma di origini meridionali, fanno sempre simpatia. Poi presi in mano il libretto che Giovanni Fiandaca aveva scritto con lo storico Salvatore Lupo, dal titolo La mafia non ha vintoPagina dopo pagina la simpatia si trasformava in perplessità; e poi la perplessità in fastidio; e poi il fastidio in incazzatura vera e propria. Il professor Fiandaca, in pratica sosteneva due cose.

Primo: l’articolo 338 del codice penale (violenza o minaccia a corpo politico) non si poteva applicare alle vicende designate con il termine corrente Trattativa: cioè – secondo lui – le minacce rivolte da Bagarella e Cinà ai membri del governo (per il tramite dei carabinieri imputati) non sarebbero minacce a “corpo politico”. Secondo: se pure la trattativa vi fosse stata, sarebbe stata lecita perché dovuta allo stato di necessità (articolo 54 del codice penale), cioè la necessità di salvare altre vite da altre stragi.

Avendo avuto a che fare con la ‘ndrangheta radicatasi al Nord, penso di sapere qualcosa di mafie. Di codici un po’ meno, è vero: ma sono del tutto persuasa che Fiandaca si sbagliasse e di grosso. Si sbagliava sul primo punto per i motivi che leggeremo nella sentenza di Palermo, pur se a me quest’idea di escludere dalla nozione di “corpo politico” il governo mi sembrava (e sembra ancor oggi) bislacca: sarebbe corpo politico un consiglio comunale e non il governo (?). E prendeva una grossolana cantonata sul secondo punto, per i motivi che, con i miei modesti mezzi, so spiegare anche meglio.

Non intendo riaprire ferite e ragionamenti storicamente complessi, ma ricorro ai miei ricordi di giovane poco più che ragazza durante il sequestro Moro. Gli elementi che il PCI addusse per sostenere la linea della fermezza e per escludere ogni trattativa con le Brigate Rosse furono proprio che non si poteva cedere al ricatto e mettere sullo stesso piano lo Stato e i terroristi. Giulio Andreotti ci mise il carico, in una dichiarazione in televisione, che rammento nitidamente. Disse che trattare con i brigatisti sarebbe stato rendere vano il sacrificio di magistrati e poliziotti ammazzati sino ad allora. Ripeto: non voglio entrare come fece Sciascia nell’affaire Moro ma so che nessuno, dico nessuno, parlò di stato di necessità.

D’altronde, lo stato di necessità non si può applicare a chi ha il dovere di esporsi al pericolo. E’ come se stessi per essere rapinata o stuprata e un poliziotto, che accorresse, mi dicesse: non posso difenderla, signora, perché l’aggressore ha la pistola e rischio di prendermi un proiettile in faccia. Il discorso di Fiandaca porta direttamente alla resa dello Stato.

Salvatore Lupo poi – ancora domenica 22 aprile 2018 su Repubblica – insiste a negare l’evidenza e sostiene che l’ipotesi della Trattativa è fragile perché i boss della mafia non ne hanno tratto benefici, essi sono ormai sconfitti: beato lui. Evidentemente non legge una relazione della DIA da anni. Qualcuno dovrebbe mandargliene una copia, in modo da consentirgli di aggiornarsi sui mandamenti mafiosi di Palermo e provincia e sulle loro attività floride. Né Lupo ha seguito i lavori della Commissione d’inchiesta: avrebbe altrimenti sentito Michele Prestipino, procuratore aggiunto di Roma, affermare che Cuffaro aveva relazioni con boss mafiosi: “Il processo all’ex presidente della regione siciliana ha unito tanti pezzetti che sono partiti dal cuore dell’organizzazione: un pezzetto è partito da personaggi mafiosi di Bagheria, un pezzetto da personaggi mafiosi di Brancaccio e poi, unendoli, si è arrivati a ricostruire un sistema di relazioni che le sentenze, anche quelle passate in giudicato, hanno chiarito in tutte le sue forme e le sue potenzialità”. Spostandoci su Trapani, Lupo dovrebbe poi spiegare perché Matteo Messina Denaro non è ancora stato catturato, coperto da mille collusioni e complicità.

Del resto, Fiandaca e Lupo dovrebbero leggersi le parole sulla mafia riportate nella relazione finale della Commissione d’inchiesta sulle mafie, approvata qualche mese fa (il doc. n. 38 delle inchieste parlamentari): “In via generale, può affermarsi che, dalla lettura complessiva del materiale raccolto: risulta la presenza di Cosa nostra in ciascuna provincia siciliana; che l’associazione mafiosa si muove principalmente nel settore delle estorsioni; prova ad infiltrarsi nell’economia pubblica e privata; va alla ricerca di contatti, diretti o indiretti, con interlocutori istituzionali; ha ampliato i suoi affari nel settore più nuovo dell’accoglienza dei migranti e, comunque, laddove vi sia la possibilità di ottenere ingenti ritorni economici. Emerge anche, però, che in tutte le parti dell’isola deve fare i conti con i continui arresti i quali, sebbene compensati, in qualche modo, dalle scarcerazioni di sodali che hanno scontato la pena, riducono il livello, ma non il numero, dei propri “uomini d’onore”. Un’analisi attenta dei singoli contesti fa trasparire anche qualcosa di nuovo che rivela segni di particolare vitalità e che offre ulteriori spunti di ragionamento. […] Nella città [di Palermo] si paga il pizzo, esattamente come avveniva anni fa, in ogni borgata e in ogni quartiere del centro”.

In sostanza e in conclusione, i principali (e pretesamente più autorevoli) critici del processo alla Trattativa avevano argomenti di modestissima consistenza. Dei vari Ferrara, Bordin e cantori stonati vari è persino inutile disquisire.

Veniamo al perché invece appaiono pesanti gli interrogativi e solidi gli indizi che la Trattativa ci sia stata. Appariva (e oggi, almeno in primo grado, è assodato) che vi è stato un moto aggressivo del vertice di Cosa nostra verso alcune persone che potevano decidere delle regole di contrasto, fatto di minacce e ricatti, pretese e domande. Quelle richieste, anziché essere respinte al mittente, furono prese in considerazione e trasmesse a chi le doveva ricevere. Esempi di interrogativi e indizi sono questi, andando a ritroso.

Parlando, come si dice in gergo “in socialità”, con un detenuto pugliese, Totò Riina nel 2013 manda un messaggio all’esterno del carcere, da cui si evince il suo indiscutibile desiderio di uccidere Nino Di Matteo. Perché mai? Perché era il principale sostenitore dell’accusa in quel processo, direi.

Nel 2012, il consigliere giuridico del Presidente della Repubblica risulta abbia fatto – in comunicazioni con lui – riferimento a “indicibili accordi”, riferiti al periodo 1992-93. Quali?

Poi: il papello delle richieste di Riina allo Stato per far cessare gli attentati esiste e in esso si chiedevano varie cose, tra cui l’ammorbidimento del carcere duro. Nel 1993 risultano revocati moltissimi decreti ministeriali di applicazione dell’articolo 41-bis nei confronti di condannati per reati di mafia. Perché mai?

Poi ancora: l’agenda di Paolo Borsellino non è mai stata trovata e il processo per il suo assassinio è stato inspiegabilmente, dapprima falsato da un finto pentito (Scarantino) e poi rimesso sui giusti binari da un altro collaboratore (Spatuzza). Perché mai?

Insomma, se mettiamo le cose in fila, materiale su cui indagare ce n’era tanto e di enorme importanza e gli indizi che portavano a ritenere che i vertici di Cosa nostra trovarono un canale per intimidire le determinazioni politico-istituzionali dello Stato c’erano tutti. I giudici hanno stabilito che questi indizi sono prove.

Ancora una volta: aspettiamo le motivazioni e aspettiamo di leggere una ricostruzione che sarà giuridica e storica al contempo. Ma in questa primavera – politicamente amara e incerta – dobbiamo essere rinfrancati per una sentenza che annuncia chiarezza su quegli anni. E dobbiamo tanta gratitudine ai magistrati che – contro tutto e tutti – hanno seguito il loro intuito investigativo e il loro senso delle istituzioni.

Lucrezia Ricchiuti

Ex senatrice della Repubblica, capogruppo di Articolo 1-Mdp in commissione parlamentare Antimafia, componente della V commissione Bilancio. Già vicesindaco di Desio