25 aprile. Domanda antica, risposte nuove: i nostri media sono antifascisti?

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Questo testo rielabora un intervento letto nel corso di “La Banalità del Male – Convegno Antifascista”, tenutosi a Milano – Palazzo Reale. 14 aprile 2018.

Come comunicatore, mi chiedo ogni giorno in cosa consista il significato civico del mio mestiere, quale sia il legame migliore tra comunicazione e democrazia. Se infatti esiste, e viene lamentato, un legame negativo – quello che appartiene alla sfera della manipolazione, della disinformazione, della propaganda – ce n’è anche uno positivo, capace di espandere partecipazione e diritti, capace di estendere la nostra democrazia. Ecco, mentre ci avviciniamo al 25 aprile, vorrei invitarvi a ragionare intorno a una domanda che con il rapporto tra comunicazione e democrazia ha molto a che fare. Questa: i nostri mass media sono antifascisti?

È una domanda poco consueta. Che ne presuppone un’altra. Come definiamo la democraticità dei mass media? Proviamo un paragone con altre parti della nostra società. La nostra scuola, per fare un esempio. Non solo non è possibile tra le sue mura insegnare o pronunciare apologeticamente parole ispirate al fascismo né attuare comportamenti di stampo fascista, ma la sua missione consiste nel promuovere l’integrazione sociale e l’abbattimento delle barriere all’istruzione e alla formazione di cittadini consapevoli.

Dalla scuola non accetteremmo niente che non applichi lo spirito della costituzione. Così, ognuno di noi può esigere che in ogni parte della nostra società si rifiuti ogni forma di discriminazione su base di censo, religiosa, politica. E ripeto un’ovvietà se dico che, nell’applicazione radicale di questi precetti, il fascismo non può riproporsi, e se concludo affermando che tanto più la nostra società prende alla lettera questi compiti, tanto più produce democrazia. Bene. Fin qui ci siamo. Se però veniamo alla comunicazione e ai mass media, cosa intendiamo per democrazia? Che cosa chiedere?

La tradizionale risposta italiana è l’accesso. Il sistema mediatico, cioè, è tanto più democratico quanto più dà spazio ai diversi pareri e ai differenti soggetti sociali. Intendiamoci: non è una concezione della democrazia mediatica campata per aria. Ha una storia e un senso. Rimanda ai totalitarismi del novecento, che sono consistiti anche nell’accentramento dei canali di comunicazione moderna, nel loro monopolio tecnologico. Il regime fascista negava ai propri oppositori i diritti politici così come la presa di parola sui mezzi di comunicazione, dei quali deteneva il ferreo controllo. Non fu Mussolini in persona, il testimonial degli altoparlanti Magneti Marelli in una pubblicità dell’epoca? E quale altro personaggio avrebbe potuto vantarne le qualità se non chi ne faceva esclusivo ricorso?

Il dopoguerra è consistito nella lenta conversione di questo accentramento. Dalla nascita della televisione pubblica in poi (1954) il coinvolgimento delle masse nel governo dello stato si misura anche in modo plastico e visivo con l’ingresso nello schermo. Un esempio fu la prima tribuna elettorale tv in assoluto di Palmiro Togliatti, nel 1960. Il segretario del partito comunista italiano, prima di sottoporsi alle domande dei giornalisti, suggellò il proprio esordio con un breve preambolo.

Trasmissioni televisive dedicate anche ed esclusivamente temi politici hanno luogo se non vado errato da cinque o sei anni. Orbene, questa è la prima volta che finalmente un partito che sta all’opposizione ma conta sette milioni circa di elettori può servirsi di questo mezzo di contatto con la cittadinanza. Si tratta di un mezzo pubblico, organizzato dallo stato, cioè coi denari comuni di tutti noi. Alla radio i commenti politici ci sono tutti i giorni ma è dal 1947-48 che non ci avviciniamo più a quei microfoni. Né noi, né gli altri oppositori del regime democratico cristiano.

 Togliatti cioè rivendicava accesso considerandolo, giustamente, un diritto democratico. Ecco perché, subito dopo, aggiunse una spiegazione. Come si era arrivati a quella trasmissione?

Se oggi vi è un mutamento, o meglio un tentativo di mutamento, in questa situazione intollerabile, è perché nei mesi di giugno e di luglio vi è stato in Italia un grande movimento antifascista e democratico che ha imposto al partito dominante un certo limite alla sua prepotenza. Parlo del vittorioso movimento che liberò Genova dalla vergogna di un congresso fascista e liberò l’Italia dalla vergogna del governo clericale e fascista presieduto dal democristiano Tambroni (…) sulle piazze i cittadini protestarono, tumultuavano, i giovani erano alla testa delle manifestazioni antifasciste, vi furono i conflitti, i morti, il lutto.

Il volto televisivo Togliatti raccontò così al pubblico la storia di quella stessa inquadratura alla quale stavano assistendo. Una lotta antifascista si era tradotta nella presenza sui media.

Negli anni successivi, l’apertura del sistema mediatico sarebbe rimasta il punto centrale della questione. Per citare quella pubblicità degli anni del fascismo, ognuno aveva diritto a un po’ di altoparlante. Entro questo stesso modello la Rai aggiunse nuovi canali televisivi coinvolgendo gli altri partiti, così come non fu estranea a questa logica persino la lotta armata degli anni del terrorismo, che si definì “Propaganda armata” proprio perché forzava l’attenzione dei media. Quando poi arriva il nuovo soggetto privato Berlusconi, e la conseguente necessità di regolare la presenza politica con la par condicio, si ripresenta la stessa impostazione. Chi possiede i media, chi riesce ad affacciarvisi. Insomma, più democrazia sui media ha voluto dire per anni più accesso. Dare la parola. Conquistare l’inquadratura.

Ora, io credo che questa concezione oggi entri in crisi per diversi motivi. È certamente superata l’idea di pubblico che sottintende, ovvero quella di passivo ricettore davanti alla tv, ma non ci soffermeremo qui su questo aspetto. Il primo punto di rilievo, piuttosto, è che l’accesso non è un valore adeguato al panorama mediatico odierno, legato com’è all’era dei media monopolizzati in una logica autoritaria o post-autoritaria. Dopo l’arrivo del web, dei social network, della moltiplicazione digitale dei mezzi di comunicazione, l’accesso al media non può più essere il punto qualificante, dal momento che ognuno di noi oggi ha una possibilità di raggiungere un pubblico. Chiunque può organizzare – è solo un esempio – una diretta sui social network e, per quanto anche il web contenga contraddizioni, non si può negare che l’impatto del digitale in termini democratici e pluralisti sia stato straordinario. Se solo pensiamo agli ultimi anni, verifichiamo come alcuni tra i fatti più rilevanti di partecipazione democratica abbiano usufruito di una capacità autonoma di comunicare e organizzarsi tramite i nuovi mass media. I moti democratici nei paesi arabi e in Asia, vedi gli ombrelli di Hong Kong, quelli studenteschi del Sud America, gli esempi di movimentismo radicale occidentale raccontano di nuove possibilità sfuggite al controllo centralizzato.

Abbiamo quindi in primo luogo un diverso scenario tecnologico. Che è poi quello del protagonismo diffuso sui social. Una realtà che non si può ignorare. Ma questo allargamento mediatico ha comportato un secondo mutamento, tale da far vedere sotto nuova luce la logica dell’accesso. Pensiamo ai giorni di Macerata. 3 febbraio 2018, Luca Traini, militante di estrema destra, già candidato della Lega Nord, a bordo di un’Alfa 147 nera attraversa la città sparando e ferendo sei immigrati. Quei giorni ci hanno consegnato un’immagine drammatica del sistema mediatico nostrano. Giornali, web, tv: non sono forse stati giorni di accesso anche quelli? I media non fanno differenze. Bisogna prenderne atto: quell’accesso che prima era una conquista democratica è oggi una forma d’indifferenza tecnica, una neutralità che ricorda il professionismo di Eichmann.

Nei giorni di Macerata si sono affacciati proclami razzisti su tutti gli schermi televisivi. Dati improbabili sulla quantità di reati commessi dagli immigrati, opinioni casuali, proclami: non ci sarebbe stato niente di nuovo e preoccupante nell’ascoltare protagonisti della vita politica italiana snocciolare analisi grossolane, se non ci andasse di mezzo la vita di povera gente. La logica dell’accesso è si rivelata nella sua insufficienza. No, l’accesso non produce più democrazia.

Che cosa è mancato ai media in quei giorni? Non certo censura – oggi improponibile in qualunque forma – ma ruolo, capacità di mediazione culturale. Diciamolo: se proprio bisogna intervistare un fascista, si ha almeno il dovere di un controllo competente sui contenuti criminogeni che costui veicola. Il che vale anche per le sparate degli esponenti politici in campagna elettorale. Un canale televisivo è un cittadino. Una redazione è un cittadino. La loro partecipazione alla società democratica non può consistere nel dire avanti un altro. Né si può più accettare un giornalista che interloquisca senza cognizione sul tema dei migranti. Da dove spuntano i “476mila immigrati che per mangiare devono delinquere” di Berlusconi? Onorevole Salvini, davvero ci sono quasi 200.000 immigrati negli alberghi italiani? Presidente Fontana, sa che in nessun ambito scientifico si dà credito al concetto di razza?

I comportamenti dei mass media non sono natura da contemplare. Bisogna criticarli senza soggezione e non soltanto per lo spazio che ci concedono o no. Antifascismo in comunicazione è oggi, a me sembra, impedire ai messaggi stessi di essere fascismo, di discriminare, di opprimere gli innocenti e i deboli. Ciò che è autenticamente antifascista oggi è la mediazione e il controllo delle informazioni, la consapevolezza dei suoi contenuti. Ecco perché i media devono essere misurati non più sulla logica dell’accesso ma su quella della responsabilità.

Certo, sappiamo che talvolta il mondo della comunicazione agisce più per conformismo e pigrizia che per dolo consapevole. Questo tuttavia non discolpa, nel momento in cui l’accesso è stato ottenuto nei fatti, indiscriminatamente, da ciascuno, fascisti compresi. Se niente va censurato, allora tutto deve essere spiegato e mediato. Tutto va reso democrazia. Affiancare ai dati finti quelli veri, chiedere precisazioni dove non ce ne sono, combattere stereotipi così come visioni agiografiche. Rendere omaggio al potente di turno non è tanto grave quanto consentirgli di umiliare gli ultimi reggendo il microfono senza intervenire.

Se antifascismo è contrasto a ogni germe di autoritarismo e discriminazione, oggi potranno dirsi tali i mass media che non si limiteranno ad aprire il microfono ai più, compresi razzisti e odiatori di ogni provenienza, ma quelli che non lasceranno le loro parole prive di commento, di contesto, di contrasto. Se democratico è ogni atto che promuove la libertà e l’uguaglianza tra i cittadini, oggi possono dirsi tali solo i media che ci mostrino parole e immagini discriminatorie definendole per quello che sono, raccontandone la provenienza, dando a ognuno strumenti per comprenderne la natura.

Questo è io credo, a grandi linee, il compito nuovo di un sistema mediatico autenticamente democratico oggi. Se ne saremo all’altezza, molte sofferenze saranno risparmiate.

Giuseppe Mazza

Copywriter, dopo dieci anni in Saatchi&Saatchi e Lowe Pirella ha fondato Tita, la sua agenzia. Dirige Bill Magazine, la rivista italiana di studi sul linguaggio pubblicitario. Ha pubblicato "Bernbach pubblicitario umanista" e "Cose Vere Scritte Bene" (Franco Angeli). Ha scritto per Cuore, Comix, Smemoranda, Il Venerdì.