Non dobbiamo azzerare tutto: abbiamo seminato, raccoglieremo. #ricominciodatre

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“Delusione”. “Sconfitta”. “Aspettative tradite”. Dalle elezioni a oggi non si vede la fine di un mantra funereo che, più che a una analisi politica della realtà (pre e post elettorale), ricorda le lacrime rabbiose di quando, bambini, scoprivamo che Babbo Natale non ci aveva portato l’unicorno volante.  

Sin da quando, alla trasmissione della Gruber, D’Alema aveva menzionato l’obiettivo della “doppia cifra” ho cercato di ricordare agli amici e compagni di campagna elettorale che – citando le parole di Pajetta ricordate proprio da D’Alema – “un leader politico dev’essere capace di fare propaganda; ma se è un buon politico non deve mai lasciarsi convincere dalla sua propaganda”.

LeU aveva e ha un programma politico che risponde all’interesse di lungo periodo del Paese e della stragrande maggioranza degli italiani. Eppure esso non è stato compreso, se non da una sparuta minoranza di addetti ai lavori. Anche in ragione dei tempi strettissimi dettati dalla competizione elettorale non si è neanche stati in grado di spiegare (ai candidati, e poi agli elettori) cosa significa LeU, da dove viene quel “tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti” e perché questa breve formula contiene (come il seme ha già in sé l’albero) un programma politico, economico e sociale che mette insieme la dimensione globale e quella locale, le politiche per un “nuovo modello economico” e una visione sociale che riparta dai doveri umani di assistenza e prossimità (senza l’adempimento dei quali da parte di singoli e dei gruppi intermedi gli stati resteranno sempre incapaci di garantire il pieno sviluppo di tutti e di ogni persona umana).

Non si tratta solo di aver toppato megagalatticamente nella comunicazione. Se altre formazioni politiche, ancora più nuove e piccole di LeU, si sono poste il problema di organizzare seminari di formazione (sul programma e sui dati della realtà economica e sociale del Paese) per i volantinatori, e noi non lo abbiamo fatto neanche per i candidati, allora vuol dire che pure l’organizzazione ha fatto abbastanza pena.

D’altro canto, almeno in Germania, non abbiamo fatto nemmeno un tesseramento, trovandoci con due (dei tre) soggetti di coalizione che hanno continuato a tesserare “in proprio”, e soprattutto dovendo fronteggiare “Comitati” in cui persone che rivendicavano a viso aperto “non sono di LeU, penso a se votarvi” partecipavano alle riunioni e votavano in esse decisioni fondamentali di linea politica.

Stendiamo poi un velo pietoso sull’organizzazione delle comunicazioni interne, dove l’informalità ha dimostrato di aprire la strada al caos e all’anarchia più errabonda.

Cosa dire poi della “scissione”, ferita aperta per l’elettorato di sinistra e che ancora attende una comprensione politica unitaria e non conflittuale?

E di fronte a un programma che davvero rende onore alla “meglio italianità”, che dire di chi presentava LeU come la spigolatrice del voto boschivo, quasi che si fosse abdicato a un’alternatività politica (sostanziale e di metodo) con l’evoluzione storica del Partito democratico (acceleratasi con Renzi, ma non a questi totalmente imputabile)?

Liberi e Uguali è stata l’unica formazione politica a non fare promesse elettorali estemporanee. L’unica a offrire una proposta veramente istituzionale e di governo, che guarda all’insostenibilità sociale ed ecologica dell’attuale modello economico.

Solo LeU ha avuto il coraggio di fare questo in un momento storico (per giunta) in cui l’elettore medio tende più a voler monetizzare il proprio consenso (con un reddito, un aumento pensionistico, una promessa di assunzioni, o con alcuni diritti civili) che non a cercare spiegazioni profonde sul “dove siamo e dove vogliamo andare” come Paese e come mondo.

Che in queste condizioni si sia riusciti a raccogliere un consenso significativo, a mobilitare persone eccezionali, a mettere al lavoro generose e diverse generazioni, richiederebbe una valutazione politica ben diversa. E’ stato un successo.

Certo: c’è tanto da fare. Smettiamola però coi toni lugubri di chi veglia un morto. La fede in un mondo più giusto, in una visione universale che metta al centro la dignità della persona umana (sia essa il migrante sul barcone o l’italiana stanca di un femminismo ideologico e altoborghese) è in crisi da decenni.

I facili moralizzatori che ci dicono che “dobbiamo tornare nelle periferie” da un lato dimenticano che tanti di noi in periferia ci sono sempre stati e rimasti, per scelta; dall’altro non ci dicono cosa andiamo a dire alle periferie. Di fronte alle delocalizzazioni andiamo a proporre un po’ di “responsabilità sociale d’impresa”, o magari la statalizzazione delle fabbriche? E se sappiamo che entrambi gli strumenti non funzionano, non dovremmo forse elaborare una chiara visione economica di medio termine (magari ripartendo dalla funzione sociale della proprietà privata e dalla necessità di un’organizzazione transnazionale delle istanze delle classi subalterne) e poi andare a proporla e discuterla nelle periferie?

Se LeU rischia di sfasciarsi non è forse perché non si è avuto il tempo di definire una visione politica condivisa capace di tener uniti fenotipi diversi (di una diversità che è complementarietà e ricchezza, a patto però che vi sia un’organizzazione capace di far stare insieme sensibilità e percorsi umani non ancora convergenti)?

Negli ultimi anni le idee dominanti (dall’incolpare “i politici” – quasi che si tratti di una nuova “razza” – al “me ne frego” di chi preferisce promettere mance senza curarsi di chi pagherà per un debito pubblico fuori controllo) soffiano, potentemente, contro la serietà istituzionale di chi vuol dare applicazione alla Costituzione, ai diritti umani, allo sviluppo sostenibile e inclusivo.  

Chi si aspettava risultati diversi potrebbe dirci il proprio CAP di residenza e di lavoro?

Non li avete visti (nel cortile stendendo i panni, ai giardinetti sgarrupati accompagnando i bambini tra gruppetti di mamme etnicamente divise sulle poche panchine ancora fruibili) gli italiani che oggi inneggiano alla Lega o ripongono le loro speranze nel Cinque Stelle?

Davvero pensavate che un italiano su dieci, o almeno sei su cento, avrebbero potuto capire che LeU proponeva l’univa soluzione credibile ed integrale alle grandi questioni che il Paese e il mondo stanno affrontando?

Per le idee che circolano nell’aria noi – come ebbi a dire ben prima dello spoglio elettorale – avevamo già perso. Bisogna ripartire dal pre-politico, dal creare consapevolezza sulla situazione reale, dal rinfocolare le ceneri sotto le quali brillano vive le braci della speranza (progressista, socialista, comunista, ciascuno faccia la sua analisi) che ci unisce e ci motiva a lottare non per il risultato, ma perché rispondiamo ad un dovere interiore, a una vocazione comune.

Smettiamola di sembrare una famiglia in cui – tutti uniti attorno al testamento dal quale ci si aspetta un grande patrimonio – ci si azzanna come iene non appena scoperto che il defunto ha lasciato ben poco da spartirsi.

Abbiamo ereditato semi preziosi (non da ultimo un logo/denominazione che – a capirlo – c’è da far invidia a tutti). Non gettiamoli via recriminando che volevamo ricevere poderi già arati. Non scanniamoci (come i lavoratori nel campo nella parabola evangelica) su chi ha iniziato prima ad arare la terra, e sul giusto salario da dare agli ultimi arrivati (siano essi neofiti alla politica o gli ultimi a scissionare).

Guardiamo invece alla missione che la storia ci affida. Ripartiamo dal programma, facendone uno sforzo di partecipazione e di discussione condivisa. Ripartiamo dall’organizzazione, discutendo in modo strutturato come dotarsi di quegli apparati (leggeri ed efficienti) che siano i più coerenti alla nostra visione politica ed istituzionale. Ripartiamo dall’estroversione verso la società, dall’andare a intervistare i nostri concittadini, ascoltandone aspettative e inquietudini, riportandole agli esperti, cercando soluzioni.

Solo una buona organizzazione ci permetterà di iniziare da progetti locali, dal condividere e circuitare buone pratiche ed esperienze, al contempo organizzato una rete nazionale, consolidando una visione politica comune, una linea di governo, irrobustendo il legame fra gli eletti di LeU e la base.

Un milione e centomila voti sono un fatto, un anticipo di resurrezione di una Sinistra che da anni viveva in uno stato di disfacimento ideale e organizzativo (con buona pace di chi crede che un organo sano in un corpo morente possa vantarsi della propria salute relativa).

Facciamo meno parole e più fatti, magari seguendo l’esempio dei militanti che hanno già reimbiancato le sedi e che attendono da mesi di poter partecipare a una significativa e promettente fase costituente.

A chi preferisce i “recinti della masseria di famiglia, dove i racconti delle gesta dei padri (e dei risultati elettorali passati) suonano rassicuranti” dobbiamo saper offrire una visione convincente (nulla da rifare, basta render più chiara ed esplicita la splendida relazione Muroni) e un’organizzazione che infonda ragionevole speranza nella riuscita di un’operazione politica per la quale serve andar a scuola dai contadini, imparare la fiducia della semina e la generosità di lasciare il raccolto ai posteri (ci son da monito, in questo, i partigiani morti per la nostra libertà).

Al lavoro e alla lotta dunque: la missione politica che la storia ci affida è la costruzione di un partito che si protenda verso l’avvenire, costruito con “cose nuove e cose antiche”, nuovi mezzi organizzativi e di comunicazione, e antiche (e attualizzate) visioni della storia e del Bene comune.  

Il lamento delle prefiche ci distoglie solo dal cammino. Facciamo allora come Ulisse, lavoriamo a testa bassa e non prestiamo orecchio alle sirene di sventura.

Gabriele D'amico

Torinese, avvocato, appassionato di diritto ed economia della cultura, dottorando fra Berlino e Gerusalemme in diritti umani e diversità culturale. Consapevolmente olivettiano, credo nella capacità umana di superare la gregarietà del sistema limbico e ragionevolmente spero in un futuro di sviluppo umano integrale.