Ricordare Alfredo Reichlin spetta a chi ha avuto occasione di frequentarlo e condividervi esperienze di vita. Qui ci si interroga se si sia stati o meno in grado di far tesoro dei suoi moniti e dei suoi insegnamenti, in particolare quelli che ci ha consegnato negli ultimi anni. A risponderne non è chiamato qualcuno in particolare. È la classe dirigente diffusa della sinistra italiana, largamente intesa.
Il valore dei contributi di Alfredo poteva misurarsi su di una loro particolare capacità. Quella di far apparire il nostro dibattito vuoto, inadeguato, quando non stucchevole. Sia che esso concernesse questo o quel tema dell’agenda parlamentare, sia che riguardasse le doti di leadership di questa o quella personalità. Col senno di poi, credo si debba riconoscere che sì, quei dibattiti erano vuoti e stucchevoli. Marginali nella loro portata. Residuali nell’interesse della pubblica opinione. Incapaci di catturare e stimolare passioni al di là del ceto politico. Disinteressati al coinvolgimento di attori e interlocutori sociali.
Il giudizio degli elettori lo ha duramente certificato.
A chi si chiede oggi quale sia la strada da seguire per dare finalmente dignità (e utilità) al dibattito che attraversa il centrosinistra, Alfredo aveva dato risposta tempo fa. Era convinto che la possibilità di “costruire di una soggettività politica in grado di accogliere, di organizzare la partecipazione popolare e insieme di dialogare, di comporre alleanze, di lottare per obiettivi concreti e ideali, rafforzando il patto costituzionale” fosse vincolata alla ricostruzione di un’idea di Paese. ‘L’Italia, cos’è oggi l’Italia?’, così incalzava retoricamente chi aveva occasione di andarlo a trovare.
I virgolettati sono tratti dall’articolo scritto per l’Unità sette giorni prima di lasciarci. Se avessi avuto modo di rivederlo, in quei sette giorni, gli avrei rivolto una domanda che rimarrà senza risposta. È giusto che Alfredo faccia riferimento alla ricostruzione, e non alla costruzione, di un’idea di Paese. Le classi dirigenti italiane ne avevano una, più di una, alcune in contrasto tra loro. La loro combinazione, nel bene e nel male, ha tenuta unita l’Italia, l’ha fatta crescere, le ha dato un posto nel mondo. Invece, colpisce che parli di costruzione, e non di ricostruzione, di una soggettività politica. Come se, da molti anni, ne mancasse una dotata delle capacità suddette. Gli avrei chiesto se si fosse trattato di una ‘casualità sintattica’, mi si passi l’espressione, o di un implicito giudizio politico su ciascuna delle forze del centrosinistra esistenti.
Nessuno ha titolo di dare libera interpretazione alle sue parole. Premesso quindi che si tratta di una personale valutazione, la realtà mi sembra essere che no, da diversi anni l’Italia non può contare su una soggettività politica con le qualità sopra elencate. Non le possiede il Partito Democratico, nato tardi e male, che ci vide, al Lingotto, “allinearci con un magnifico discorso al liberismo ancora imperante”. Meno che mai le possiedono altri. Nessuno, in ogni caso, si è mai preso il disturbo di aprire una riflessione seria in proposito. Anzi.
Hanno prevalso, in tutti i passaggi decisivi degli ultimi anni, logiche autoconservative di (presunti) gruppi dirigenti, il vuoto richiamo a schemi e modelli di esperienze archiviate, l’ossessiva ricerca di personalità più o meno carismatiche, funzionali al circo mediatico.
Alfredo ci invitava a spezzare le sbarre delle gabbie ideologiche della seconda Repubblica. Abbiamo finito per consolidarne la resistenza.
Riconoscere il fallimento è un presupposto fondamentale per tornare a vincere. Mettere a fuoco un’idea dell’Italia e del suo ruolo nel mondo, e nella battaglia politica costruire un soggetto politico, formare un gruppo dirigente. Ci vorrà tempo. Non è detto ci si riesca. Indubbiamente, è l’unica prospettiva in cui valga ancora la pena investire, per due validi motivi.
Il primo è che la crisi della sinistra coincide, finendo per alimentarla, con la crisi del Paese e del suo assetto democratico. Rivitalizzare la prima, restituendole posto e senso nella vicenda nazionale, significa sorreggere, nel corso di una transizione determinante, le sorti del secondo.
Il secondo è che si tratta, probabilmente, dell’unica dimensione in cui sia possibile affrontare adeguatamente, e in tutte le sue implicazioni, la corrispondenza tra aumento strutturale delle diseguaglianze e crisi dei sistemi politici occidentali. Nostro compito è trovare la chiave per declinare il nesso che regge l’idea-forza su cui rifondare la sinistra, quello tra uguaglianza e democrazia.
Oltretutto, è l’unica via per tentare di restituire a una comunità di senso oggi smarrita e dispersa l’orgoglio dell’appartenenza e la fiducia nel futuro.
È il compito della mia generazione, che spero saprà essere degna di lui e delle persone verso cui nutriva stima e considerazione.