Non tanto “chi”, quanto “cosa”: ha perso lo storytelling, ha vinto la realtà

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Non tanto chi ha vinto o perso. Se guardiamo alla comunicazione delle politiche 2018, bisogna valutare piuttosto cosa abbia vinto e cosa no.

A perdere è stata una precisa concezione della comunicazione. Quella che possiamo definire cosmetica, volta a usare i media per coprire i problemi e costruire un mondo alternativo. È un tipo di racconto concentrato sul “dettare l’agenda” per distrarre l’attenzione dalle criticità. Prediletto dalle élite e dai suoi governi, è stato adottato negli ultimi anni dal Pd – con il suo segretario in veste di testimonial – e da un corposo apparato mediatico.

A vincere, viceversa, è stata la comunicazione intesa come descrizione. L’elettorato ha scelto cioè il racconto della realtà – quello al quale Lega e M5S hanno lavorato con coerenza nel tempo. Enfatica quanto si vuole, e non importa qui quanto condivisibile, questa descrizione ha prevalso per la sua ragione d’essere: rappresentare il reale, dare voce alle urgenze.

Non è certo un caso se il verbo rappresentare contiene un doppio significato: vuol dire svolgere una funzione in nome d’altri, ma anche raffigurare la realtà, riprodurla. Allo stesso modo, rappresentare i problemi dei cittadini vuol dire anche farli esistere sulla scena pubblica, sottrarli al silenzio e all’oblio. Dargli voce. E questo si fa comunicando.

Si dirà: è così che funziona di solito. Per il governo tutto va bene, per l’opposizione è il contrario. Non per forza. Non è impedito a chi governa uno sguardo sulla vita vera, così come l’opposizione non ha solo la denuncia dalla sua. Obama chiese e ottenne il suo secondo mandato – Forward – per continuare a sanare le ferite della recessione. L’Ulivo del ’96 sconfisse Berlusconi offrendo una prospettiva mai a tinte fosche. Non ci sono regole fisse in comunicazione, ci sono solo scelte.

Nel nostro caso, ad esempio, non si può dire che il mondo reale non avesse reclamato attenzione. Le sconfitte di Roma e Torino, l’emorragia di votanti, il netto risultato del referendum costituzionale: tutti fatti che potevano essere considerati come richiami alla realtà. Il paese protestava contro un racconto trionfalistico che ne ignorava la fisionomia autentica. Si scelse di far finta di niente. E da lì in poi, negando l’evidenza, la cosmesi diventò rimozione nevrotica.

Realtà o negazione? Una celebre fotografia scattata da Margaret Bourke White nel 1937 sintetizza al meglio questo conflitto. Una fila di sfollati è sovrastata da una gigantesca affissione che esalta lo standard di vita americano definendolo il migliore al mondo. Agli occhi di quella povera gente quale significato poteva avere quel messaggio se non l’esclusione e la menzogna? L‘american way of life sarà stato anche il non plus ultra, ma non si poteva chiedere loro di celebrarlo.

Nel caso italiano, però, a sfuggire non è solo questa contraddizione: qui non ci si accorge soprattutto di quanto quel tipo di comunicazione sia ormai insostenibile. Oggi non può più proporsi una pura relazione paternalistica tra propaganda e cittadini. Lo svelamento è patrimonio comune e lo sguardo scettico si alimenta con strumenti di controinformazione mai così diffusi. Certo non mancano eccessi paranoici e demagogici, ma la sostanza è che il messaggio cosmetico è – oltre che discutibile sul piano democratico – anche impraticabile. Insistervi è dilettantesco se non delirante.

Sarebbe meglio studiarlo, il mondo della comunicazione, invece che citarlo a vanvera. Si scoprirebbe quanto sia cambiata, e da un pezzo, l’idea stessa di pubblico. Spesso è il miglior linguaggio pubblicitario a dotarlo di strumenti contro-interpretativi, rivolgendosi cioè non a un cittadino passivo ma a individui pensanti, dei quali interpretare le aspirazioni.

Un esempio tra i tanti, che qui scegliamo anche perché di cosmesi parla esplicitamente: l’operazione Evolution di Dove (2006) che, a settant’anni di distanza dalla foto della Bourke White, ripropone lo stesso conflitto tra propaganda e gente comune applicandolo ai canoni estetici femminili.

Il suo messaggio – l’idea comune di bellezza è distorta – ha un significato liberatorio non solo perché rigetta il falso ma anche perché, rivelando in questo caso il potere del fotoritocco, offre gli strumenti per la decodifica dell’immagine finale. Per il suo svelamento. È questo il tenore dei messaggi che hanno raggiunto il pubblico sul web negli ultimi vent’anni, non solo le fake news o la spazzatura degli haters. Tutto è andato in direzione di un atteggiamento sempre più sorvegliato davanti agli imbellettamenti del potere.

L’establishment italiano non ha ancora capito che, tanto più in epoca social, la nuova cittadinanza considera una sua funzione specifica la distruzione di ogni forma di propaganda. Che poi questa richiesta di verità possa indifferentemente prendere coloriture di destra, anche estrema, oppure di sinistra intorno a valori universalistici, oppure ancora di nuovo moderatismo, questo appartiene alla capacità che le diverse culture politiche hanno di utilizzare la comunicazione secondo i propri valori.

Ancora una volta, il grande malinteso a sinistra è che “per vincere” si debba fare “come Berlusconi”. Astrattamente, imitando lo schema. Ignorando che il fondatore di Forza Italia partì da un gruppo sociale ben identificato e che la destra in questo paese è una realtà duratura. Che la comunicazione anche in quel caso servì a dare voce al dato reale, non inventò mondi senza fondamento. “Meno tasse per tutti” era uno slogan dal contenuto antisociale, certo, ma non parlava al vuoto, non era fuffa: aveva un elettorato.

Stavolta, invece, lo scollamento dal reale ha creato una pura favola senza interlocutori. In fondo, neanche Berlusconi fece “come Berlusconi”. Che la destra comunichi in termini talvolta odiosi o demagogici non significa che la sue asserzioni non poggino su dati di realtà, su elettori veri, su una base sociale, su temi condivisi. Cercare da sinistra questo contatto è la sfida consegnata dai risultati 2018.

ps

E Liberi e Uguali, in particolare? La sua voce è stata breve e flebile: non è diventata un cosa. La delusione è indubbia, ma c’è sempre qualcosa di concreto su cui lavorare. Qual è oggi il suo posizionamento di comunicazione nella sinistra italiana? Azzardo. Quello di chi, pur mancando nella tattica elettorale – fatta di mille inciampi – ha centrato l’analisi politica (il ripiegamento della globalizzazione, la destra regressiva come nemesi di una sinistra che tradisce il suo ruolo). Previsioni amaramente indovinate, che in questa fase fanno di LeU una Cassandra – inascoltata, non riuscì a impedire il crollo della sinistra – ma possono nel futuro tradursi in una dote: la capacità di guardare avanti, di individuare scenari. LeU può diventare l’osservatorio privilegiato, il periscopio di una sinistra in cantiere. Nulla di letterario, nessuna “narrazione”. Semmai si tratta dell’adozione di un concetto portante, intimamente legato al domani: sperimentazione. Il gruppo che guardò avanti può diventare anche il promotore di nuove forme di partecipazione, nuove modalità di intervento, nuovi modi di comunicare i valori della sinistra moderna.

Giuseppe Mazza

Copywriter, dopo dieci anni in Saatchi&Saatchi e Lowe Pirella ha fondato Tita, la sua agenzia. Dirige Bill Magazine, la rivista italiana di studi sul linguaggio pubblicitario. Ha pubblicato "Bernbach pubblicitario umanista" e "Cose Vere Scritte Bene" (Franco Angeli). Ha scritto per Cuore, Comix, Smemoranda, Il Venerdì.