Alle origini del populismo: la disintermediazione e (un po’) la tecnologia

| L_Antonio

Marco Revelli ha spiegato che il populismo testimonia sempre, in tutte le sue forme, una crisi della democrazia e, in special modo, un deficit di rappresentanza. Sarebbe insomma il riflesso opaco di un abisso, quello che tende a spalancarsi politicamente tra istituzioni e cittadini. Un distacco che può prendere la forma del non voto, quella della protesta, su su fino al rigetto vero e proprio della democrazia o alla rivolta contro le forme del potere democratico. Questa spiegazione, per quanto molto convincente, andrebbe, però, integrata e chiarita.

Dire che il populismo è il segnale di una crisi democratica non è ancora sufficiente. Bisogna aggiungere che si tratta, principalmente, di una crisi della mediazione politica e culturale, del sistema dei partiti, delle articolazioni istituzionali, di tutto ciò che tesse una trama complessa tra partecipazione dei cittadini e vertice rappresentativo dello Stato. Non solo di una parte politica, ma di un sistema preso per intero. Il populismo contemporaneo è figlio anche, e soprattutto, del processo di disintermediazione, che ha sfilacciato il tessuto comune di istituzioni e cittadini, ha ridotto al minimo sindacale le relazioni tra lo Stato e la società, ha ingenerato una crisi dei partiti politici da cui non è facile uscire.

In assenza di questa trama e di queste connessioni, si assiste a una specie di sfaldamento della comunità democratica, e al trionfo del mito della ‘immediatezza’. Agli occhi dei cittadini tutto diventa burocrazia, ogni iter (per il solo fatto di essere tale) è un ostacolo, il Parlamento assume la forma di un ‘chiacchierificio’, ogni procedura è una perdita di tempo, anche quando significa trasparenza e partecipazione. Ecco: la partecipazione (intesa come articolata relazione con lo Stato da parte di cittadini organizzati) cade in disuso, perché prevale il ‘click’, la foga delle opinioni in rete che spesso trascendono nell’insulto, lo strumento para-referendario, che illude di decidere senza intermediari, quasi con ‘leggerezza’, come per gioco. Anche i partiti tendono, parallelamente, ad alleggerirsi, a farsi loft, azienda, conventicola, contenitore: non serve più che animino corpi fisici, capaci di intrecciare complesse discussioni. Tutto è ridotto a un fantasma di leader che incontra in astratto dei fantasmi di cittadini indignati e rabbiosi.

Quando la crisi di rappresentanza è prodotta dalla crisi epocale di ‘mediazione’ (politica ma anche culturale e sociale), i cittadini ritornano ‘massa’, la ‘manovra’ dei media ha più forza, la partecipazione assume forme pseudo tali, gli individui più carismatici, brigando sui problemi reali dell’epoca, riescono a dirigere le opinioni come tirandole col filo. Lo schema perfetto del populismo è semplice, ed è questo: un Capo, un Popolo, e nulla in mezzo, se non un filo tecnico-mediale o emotivo-sentimentale. Il primo parla perspicuamente al secondo senza ostacoli in mezzo, il secondo acclama la leadership e si rende disponibile alle tesi più azzardate, meglio se esprimibili per le vie brevi (culturali ma anche fisiche). Quello che prima era un complesso sistema di relazioni e mediazioni politiche, sociali, istituzionali, culturali, una tradizione, una ‘formazione’, un lento addipanarsi di eredità e di dibattito che proseguiva nel tempo, diventa ora una semplice linea che collega direttamente, e unilateralmente, governante e governati.

Perché questa semplificazione? Perché i canali di comunicazione tra vertici politici e cittadini si sono davvero semplificati. Questo almeno nelle ‘forme’, senza nulla togliere alla reale sostanza della ‘crisi’, alle disuguaglianze che crescono, alle ingiustizie sociali, a cui il Capo carismatico di riferisce demagogicamente nel proprio dialogo coi cittadini privi di rappresentanza istituzionale. Le ‘forme’, appunto, sembrano liberarsi della complessità degli schemi partecipativi, dilavando l’opinione pubblica da tanti orpelli. I media, di questo parliamo, hanno ‘regolato’ nel tempo il registro partecipativo, presentandolo più immediato, diretto, senza filtri. La connessione sentimentale tra Capo e Popolo è stata enormemente facilitata dalla tecnica informativa: essa non richiede più partiti, comizi, incontri, piazze, corpi. Le ‘figure’ mediatiche risolvono in se stesse, nel loro diretto e strenuo ‘apparire’, la partecipazione del Popolo (concetto che esemplifica a sua volta la ruvidezza delle figure sociali, la loro resistenza e la loro disseminazione).

Non si vuol dire che i media abbiano, tout court, direttamente contribuito a ingenerare forme di populismo. Tuttavia, i frame mediali si prestano moltissimo alla semplificazione, facilitano strumentalmente la connessione diretta tra un Capo e un Popolo, coadiuvano lo sforzo del leader che intendesse scavalcare il presunto ‘grigiore’ parlamentare in nome di vie brevi. I media promuovono un linguaggio diretto, immediato, emotivo, diffondono un registro che ‘provoca’ una partecipazione ‘istantanea’, pronta a farsi presto indignata e spazientita. Il paradosso che ne nasce è davvero strabiliante. Siamo nell’epoca della comunicazione mediale e digitale, nell’epoca del contatto planetario, in cui i dati viaggiano a velocità pazzesche, e la lontananza fisica appare sempre più inconsistente. Eppure questa ‘fondo’ di partecipazione e di contatti, questo sistema di cavi digitali lanciati oltreoceano, tutti questi ‘ponti’ satellitari, invece di avviare alla nascita di una articolata democrazia mondiale, allo sviluppo di una grande ‘rete’ di mediazioni, ha contribuito a ingenerare l’opposto: l’incenerimento delle istituzioni, la fine della loro autorità, lo sfilacciamento del tessuto democratico verticale e orizzontale.

Laddove regna la ‘rete’ e il suo tessuto policentrico, oggi regna anche la sua crisi in termini di mediazione e articolazione dei rapporti umani (politici e culturali in primis). L’una produce l’altra? Siamo a questo punto? Siamo al punto di dire che la modernità tecnologica, e la tecnica che ne è l’ideologia, si oppongono a quel sistema di opinioni articolate, mediate e partecipate nei partiti che noi definiamo ‘democrazia rappresentativa’? Che la tecnica sfidi la politica democratica giocando ad appiattire e uniformare, in primo luogo, le opinioni? Inducendo altresì l’idea che la politica sia solo chiacchiera mentre servono fatti, soluzioni, e null’altro? E che, anzi, ‘la’ soluzione, quella migliore, quella davvero efficace è una sola, ed è capace di trovarla prima un bravo ‘tecnico’ che non gli elettori e i loro rappresentanti politico-istituzionali? Il rischio c’è. Il pericolo è evidente a tutti. La possibilità che la politica prenda definitivamente questa piega è reale. Perché il populismo è una faccia soltanto della medaglia, come abbiamo visto. L’altra è la tecnocrazia. Un’incudine e un martello che rischiano di mettere in un angolo la democrazia rappresentativa, ben più (e forse più efficacemente) persino dei violenti che si esibiscono nelle piazze secondo antichi riti. Rigettando indietro gli ultimi, i penultimi, e chi ha nella democrazia partecipata una risorsa essenziale del proprio riscatto. La rinascita di una sistema dei partiti, di istituzioni efficaci e rappresentative, di nuove articolazioni culturali e sociali e di una rete di partecipazione organizzata restano l’antidoto migliore contro la politica mediale, leaderistica, ‘scorciata’ e solo urlata che oggi sembra avere la meglio.

Alfredo Morganti Giorgio Piccarreta

Alfredo Morganti è da sempre appassionato di politica e di sinistra. Ama scrivere. Suona la batteria. Da qualche tempo si è scoperto poeta. Giorgio Piccarreta è funzionario del Comune di Roma. Coltiva orti, letture, l’amore e, fin da piccolo, la passione per la politica. Di sinistra.