Perdere il lavoro.
Nuove fragilità nel tempo della crisi

| Italia

“Lavoratore instancabile, uomo tranquillo, nulla lasciava trasparire il gesto estremo se non qualche silenzio di troppo. I vicini e gli amici avevano notato uno stato di strana irrequietezza”. Iniziano troppo spesso così le descrizioni di anonimi cittadini i quali, improvvisamente, imbracciano un’arma e uccidono: un carabiniere davanti a Montecitorio, un’impiegata della Regione, un qualsiasi funzionario di un qualche sperduto ufficio. Chi per una minaccia di licenziamento, chi per un finanziamento negato. Altri invece, anch’essi apparentemente ben inseriti nel legame sociale, scelgono con altrettanta fredda determinazione di chiamarsi fuori dalla vita dopo aver perso il lavoro, o temendo di perderlo.  I casi di suicidio legati alla crisi economica costituiscono un’emergenza crescente, testimoniata dalla recente ricerca dell’Osservatorio sulla salute nelle Regioni italiane, secondo la quale proprio la crisi, almeno in Italia, avanza verso il primo posto tra le motivazioni che spingono al suicidio, tanto che i motivi economici alla base del gesto estremo avrebbero riguardato negli ultimi quattro anni il 20-30% di casi in più rispetto al passato. Un’impietosa e nitida kodak dell’ormai bel Paese, che deve annoverare tra le sue bellezze anche un sensibile incremento di farmaci antidepressivi.

Perché perdere il lavoro, oggi, si tramuta sempre più in un’inappellabile sentenza di fine corsa? Quale è il canovaccio nascosto dietro alle parole di tanti pazienti i quali aprono le loro sedute con frasi quali il lavoro per me è tutto? L‘attuale ‘società liquida’ attribuisce al lavoro una valenza diversa rispetto al passato: non più un mero strumento di sostentamento economico o riscatto sociale in un mondo ben strutturato e capace di sostenere l’uomo in tutti i passaggi della vita, quanto uno dei pochi punti di tenuta in un legame sociale che è andato allentandosi nel corso di poche generazioni. È il tempo dell’Altro lacaniano che non esiste più. L’Altro in eclisse, al tramonto, istanza sempre meno capace di dare posto,  di introdurre e sostenere in cambio del doveroso tributo.

Recandosi alla periferia di Modena, nella profonda pianura padana che fu comunista, si trovano i circoli sociali e le bocciofile. Ci sono le mura, le indicazioni, i prati curati, le sedie di plastica e l’Unità. La struttura ancora è in piedi, spesso ristrutturata e rinfrescata dai volontari. Sono come ‘griot’ quei vecchi uomini che custodiscono i codici e le movenze del giusto lancio della boccia: giocano, ma inconsapevolmente parlano latino o etrusco, una lingua morta e sostituita da nuovi codici. Anche il dialetto che vi si parla è diverso da quello della città. La sua esistenza in senso sartriano è indiscutibile, come la radice dell’albero de La Nausea, ma i codici simbolici che lo sostengono si dissolvono all’uscita di quel luogo. Questo mondo, fatto di condivisione, comunanza, discussioni, è ancora proprietario delle mura, ma non regge il confronto con i moderni luoghi di aggregazione liquida, come i centri commerciali o i temporary store, degradazione ancora più fluida del negozio in franchising. Il dissolversi di questo Altro non ha creato successori.

Una eclisse che ha lasciato uno spazio vuoto, un posto ancora fumante di macerie, ‘erotizzato’ da questa repentina evaporazione sulla quale la psicoanalisi e altre discipline stanno cercando di dire qualcosa. I nuovi codici condivisi, al tempo del mutamento dell’ordine simbolico, sono composti anche di una neo lingua economico-finanziaria imposta dall’alto. Nuove entità (Bce, Ue, Big Pharma) emanano nuovi linguaggi ai quali il legame sociale si adatta.

In un siffatto contesto il lavoro sovente sopperisce a legami familiari che si sono indeboliti, fornisce un’identificazione in un tempo divenuto fucina di precarietà, contiene aspirazioni altrove negate per mancanza di meritocrazia. Il posto di lavoro diventa dunque un ambiente nel quale ricreare quelle relazioni che la modernità ha progressivamente eliminato, venendo meno i momenti di convivialità comune, sempre più relegati nel privato, quando non a mondi virtuali e privi di contatto fisico. La perdita dell’occupazione significa a volte il venire meno di tutto questo. L’individuo scopre una solitudine nuova perché mai provata in un mondo di identificazioni progressive e posticce, costretto a percorrere da adulto un deserto formativo mai conosciuto in una adolescenza colma di oggetti gadget utili a tamponare qualsiasi interrogazione o domanda esistenziale.

Il lavoro a volte diviene un sinthomo, per usare un termine lacaniano. “Elemento riparatore […], una guarigione, un elemento terapeutico[1]” capace di sostenere l’individuo come nodo portante della struttura. Per molti il lavoro è drammaticamante ‘tutto’, funzione segregante e totalizzante che assorbe e fagocita i tanti investimenti affettivi che rendono l’uomo un essere che vive con l’Altro.

Si uccidono imprenditori, dipendenti. Titolari di aziende colpite dal sisma, operai avvisati della imminente delocalizzazione tramite un sms. Ma in questa falcidie, la clinica indica che sono i più deboli strutturalmente quelli che per primi si chiamano fuori. E fornisce alcune indicazioni che possono orientare la politica e le istituzioni in un’opera di prevenzione.

La melanconia è uno stato dell’animo che predispone ai passaggi all’atto di tipo suicidario, ed espone maggiormente tali soggetti ai rischi della crisi. Può giungere a livelli così profondi da indurre il soggetto che ne è avvolto a farla finita, spesso in modo subitaneo, lasciando sorpresi amici e parenti. Anche quando la situazione non pareva irrisolvibile. Ci si arrende quando l’azienda tracolla, quando il proprio posto di lavoro sfuma, quando una crepa segna l’edificio. Il melanconico patisce un antico fuori scena.

Si tratta di una condizione di esclusione ab inizio, un fuori squadra come dato costitutivo. Nella triangolazione edipica, il melanconico non è stato introdotto, non ha trovato forti mani che ne hanno circoscritto e protetto il posto. Egli occupa così una posizione permanente di oggetto suscettibile di caduta, portatore di una provvisorietà radicale. Questa è la condizione che tanti depressi gravi cercano di neutralizzare nel corso della vita. Si tratta dunque di una ricerca di posto, di stabilizzazione dell’essere che mira a scongiurare la ricaduta nella originaria posizione di cosa. Nel momento in cui il legame si sfilaccia e il posto diventa incerto, egli è irrimediabilmente risucchiato verso una posizione primigenia. In molti casi l’uscita di scena è subitanea e richiama il passaggio all’atto, il niederkommen di cui parla Jacques Lacan: il lasciarsi cadere ‘[…] è essenziale a qualsiasi improvvisa messa in rapporto del soggetto con ciò che esso è in quanto a[2]’. Per costoro dunque la situazione economica attuale è più pericolosa, in quanto mette in luce e spoglia una condizione più fragile, elevandola a sistema. Individui che si trovano a battagliare per evitare di essere ridotti a cosa, in un contemporaneo che lavora per ridurre tutti a quello stato. Cellule totipotenti, neutre, buone per raccattare frutta, intessere paglia o portare le pizze.

Il lavoro è anche un formidabile punto di tenuta per soggetti con strutture psicotiche non scatenate, le quali perdendo di colpo il punto di equilibrio, vedono concretizzarsi fantasmi persecutori che armano le loro mani sino a passaggi all’atto violenti, colpendo in ignari funzionari quell’Altro colpevole di avergli strappato il tappeto da sotto i piedi lasciandoli cadere nel vuoto. La psicosi paranoica deflagra nel momento in cui vengono meno le protezioni che sino a quel momento avevano tenuto la situazione stabilizzata. In alcuni casi perdere il lavoro rappresenta lo scioglimento della colla che teneva assieme una personalità fragile, slatentizzando la psicosi sottostante. L’obiettivo di Preiti erano i ‘politici’, la ‘casta’ nella sua interezza, colpita cercando di ucciderne alcuni componenti. Mirare all’altro per abbattere l’Altro.

La crisi passa come una lama indistinta e toglie quel lavoro-identità che sigilla il vaso di pandora del disagio personale, facendo così deflagrare strutture siffatte. Le istituzioni e la politica non hanno solo il compito di salvaguardare l’occupazione ma anche di appurare, con strumenti clinici, le possibili conseguenze che la sua privazione indiscriminata e brutale può avere su soggetti più fragili. L’istituzione ha davanti a sé due strade: accodarsi al senso comune, che non vede che un pazzo squilibrato al quale addossare la summa delle colpe; oppure prendersi la briga di costruire un apparato recettivo capace di vedere chi sta restando senza lavoro, sostituendo alla mannaia la politica dell’uno per uno.

Maurizio Montanari

Psicoanalista. Responsabile del centro di psicoanalisi applicata LiberaParola di Modena (www.liberaparola.eu). Membro Eurofederazione di psicoanalisi