Lezioni dalla Francia: perché fermare la destra non ci basterà

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Tra poche ore, la Francia avrà il nuovo Presidente della Repubblica. Sarà Macron, molto probabilmente, a salire all’Eliseo, dopo la fallimentare esperienza di Francois Hollande. Sono state le elezioni più singolari della storia: per la prima volta nella Quinta Repubblica due esponenti “estranei” alle famiglie politiche tradizionali del paese si contendono al ballottaggio lo scettro di “Monarca Repubblicano”. I socialisti non pervenuti, schiantati e divisi, e la destra gollista azzoppata dagli scandali e da una leadership grigia.

Con un particolare che dovrebbe far riflettere anche i nostri commentatori più attenti alla cucina politica italiana: Ps e Republicains, per rispondere alla loro crisi di militanza e di credibilità, hanno privilegiato e amplificato il bagno catartico delle primarie. Scelta politicamente e persino esteticamente ineccepibile. Ma all’apparir del vero, le primarie si sono semplicemente rivelate un fuoco fatuo, utile a riempire qualche pagina di giornale ma purtroppo non le urne, rimaste miseramente vuote. Dunque, oggi più che mai, la Francia parla anche a noi, al nostro campo politico, alla nostra democrazia. Che non sta bene, affascinata sempre di più dalle sirene di forze che si collocano fuori dal tradizionale clivage destra-sinistra e che appaiono indubbiamente più contemporanee perché aderenti a una realtà sociale mutata profondamente.

Macron raccoglie, con un messaggio a metà strada tra la rottamazione renziana e il montismo tecnocratico, una quota rilevante della borghesia urbana progressista, insoddisfatta della litigiosità e dall’inconcludenza dei socialisti e preoccupata da una minaccia diffusa al suo stile di vita. È una borghesia cosmopolita, che mangia biologico, che legge riviste internazionali, che circola in bici per Parigi e che organizza i comitati per l’apertura delle isole pedonali, che è connessa h24 con il mondo perché il cablaggio è un diritto non negoziabile. È il ceto dirigente, sempre più ristretto, di un paese che vive in “stato di emergenza” da un anno e mezzo, che ha visto i kamikaze farsi esplodere in casa come a Kabul o a Baghdad, che teme l’avveramento della profezia di Houellebecq dello scivolamento verso una guerra civile finale a bassa intensità con un’Islam di terza e quarta generazione, percepito come sempre più aggressivo ed egemonico. A questo pezzo di Francia oggi viene consegnata la responsabilità di contrastare il rischio che Marine Le Pen vinca e i fascisti arrivino al potere di una potenza occidentale che – benché declinante – detiene l’arma nucleare e siede come membro permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Questo rischio tuttavia sembra solo rimandato. Il bacino di chi sta bene economicamente o risulta meno sensibile a un messaggio di paura e di rinazionalizzazione della politica non è più maggioritario da tempo. A sinistra nasce un campo di forze attorno all’ex ministro socialista Melenchon che sfiora il 20 per cento e si presenta come profondamente antisistema, capace di dare rappresentanza in molte aree dimenticate del paese ai perdenti della globalizzazione. Una miscela di vecchie parole d’ordine mitterrandiane e l’allusione esotica al socialismo bolivariano, innervata su una piattaforma digitale partecipata che ha collezionato in poche settimane mezzo milione di aderenti. Roba da far impallidire Rousseau o il neonato Bob. Messaggio semplice e immediato: France insoumise, Francia ribelle. Ribelle verso l’Europa dell’austerity e dell’euro tedesco, ribelle verso la riduzione dei diritti del lavoro, ribelle verso le consorterie politiche e finanziarie corrotte. Ovviamente, il modello Melenchon è difficilmente replicabile altrove: innanzitutto perché la competizione presidenziale ha una natura profondamente diversa dalle altre. Contano il carisma del leader e in maniera assai rilevante, soprattutto al primo turno, la polarizzazione attorno a un’identità forte capace di fare appello diretto al popolo. Un risultato così poderoso risiede innanzitutto in questi due ingredienti. Ma ha contato – e tanto – anche la capacità di interpretare la rabbia di una generazione sventrata dalla precarietà e di quella quota di ceti popolari non ancora conquistati al lepenismo che sono tornati a votare dopo anni a sinistra. Su una piattaforma laburista e ultrakeynesiana, fortemente riformista sul piano istituzionale (appello alla Sesta Repubblica, fine del presidenzialismo e democrazia diretta), ma allo stesso tempo secondo gli specialisti della sicurezza con il programma più credibile nella lotta al terrorismo.

Una “sinistra del popolo” distante dallo sforzo, non premiato, del candidato della sinistra Ps che ha cercato una sintesi tra lavoro e reddito, riconversione ecologica dell’economia e diritti civili, accoglienza dei migranti e federalismo europeista. Una sinistra, quella di Hamon, più tradizionalmente euromediterranea, ma apparsa evidentemente troppo light davanti all’acuirsi della crisi e decisamente incapace di separare il suo destino dalla catastrofe dell’hollandisme. Oggi la Francia ribelle è messa a dura prova nel passaggio tra il primo e secondo turno. Melenchon ha evitato dapprima di unirsi all’appello del fronte repubblicano contro il Fronte nazionale, poi ha sottolineato che non avrebbe mai votato la Le Pen, infine ha affidato a una consultazione on line l’orientamento del movimento. Risultato: un voto a tre teste. Un terzo Macron, un terzo astensione, un terzo annullamento della scheda.

Non credo sia un buon segno: la speranza suscitata da Melenchon rischia di essere stritolata nel dibattito che spesso ha caratterizzato spezzoni della sinistra più settaria e dogmatica: il nemico del mio nemico è mio amico. E i disastri che ne sono conseguiti sono stati drammatici per il movimento operaio. Melenchon perde un’occasione per dirigere il suo popolo verso la vittoria contro Le Pen e per preparare la costruzione di un’alternativa credibile al centrismo liberale e tecnocratico di Macron che governerà la Francia. Ha rotto finalmente il recinto della minorità, ma appare incapace di allargarlo ad altre sensibilità democratiche che voteranno il leader di En Marche perché ancora sensibili al richiamo antifascista. E non troveranno l’unica sinistra rimasta in piedi – dopo il flop socialista – saldamente al loro fianco. Un errore vero, la rinuncia ad assolvere una funzione di guida per riunificare il campo delle sinistre. Tant’è che la Le Pen ha giocato sulla somiglianza tra il suo programma e quello della France Insoumise, soprattutto sul terreno sociale e sulla critica all’Europa. E quell’argine nelle periferie che Melenchon ha rappresentato contro l’estrema destra (i dati parlano chiaro) rischia di rompersi di nuovo, non avendo optato per  un messaggio nitido ed inequivocabile.

È prevedibile che alle prossime legislative di giugno si formerà una maggioranza presidenziale oltre le forze politiche tradizionali, una grande coalizione formata da fuoriusciti di destra e di sinistra che condurranno la Francia in una palude di trasformismo che con il maggioritario dell’ultimo mezzo secolo risultava pressoché sconosciuto oltralpe. Il presidente Macron, fustigatore della Repubblica dei partiti, amico dei mercati, paladino dei media mainstream e dei rotocalchi patinati nonché campione delle cancellerie europee, sarà probabilmente il protagonista di quella che Ilvo Diamanti ha chiamato “italianizzazione della politica francese”. Frantumazione delle forze politiche organizzate, disintermediazione dei corpi sociali, notabilato degli eletti nei territori: qualcosa di già visto e sentito dalle nostre parti.

Questo impasto mi fa dire che l’estrema destra perderà oggi, ma se la sinistra non riesce nuovamente a costruire una sintesi avanzata tra riformisti e radicali non è detto che la prossima volta il suo popolo tornerà in massa nuovamente a votare per il meno peggio. Perché in ogni caso il Front National è una forza che non è destinata a durare lo spazio di una campagna elettorale e sembra più attrezzata a reggere cinque anni di opposizione a un sistema politico che ritrova il suo punto di equilibrio sul trasformismo di elites sconfitte e arroccate nella cittadella dorata del sistema. D’altra parte, secondo le ricerche demoscopiche, il tasso di convinzione degli elettori al primo turno del candidato di En Marche è bassissimo, sostenuto e votato per assenza di alternative. Dunque, tifiamo per una vittoria ampia di Macron, ma abbiamo l’obbligo di tenere gli occhi aperti, apertissimi. La lezione della France Insoumise ci dice che una sinistra ha spazio se parla agli outsider della globalizzazione, se ricuce il rapporto tra le realtà urbane e la periferia, se non si presenta solo come portatrice di buoni sentimenti, ma ricostruisce una connessione sentimentale con chi può essere attratto dalla ragnatela dei risentimenti. La nostra funzione sta qui, in questa faglia sempre più larga che può trasformarsi in voragine: la crisi delle classi medie in Europa corrisponde alla crisi della sinistra e dunque della democrazia. È stato così nel secolo scorso. E non sta scritto da nessuna parte che la storia non si ripeta.

Arturo Scotto

Nato a Torre del Greco il 15 maggio 1978, militante e dirigente della Sinistra giovanile e dei Ds dal 1992, non aderisce al Pd e partecipa alla costruzione di Sinistra democratica; eletto la prima volta alla Camera a 27 anni nel 2006 con l'Ulivo, ex capogruppo di Sel alla Camera, cofondatore di Articolo Uno di cui è coordinatore politico nazionale. Laureato in Scienze politiche, ha tre figli.