Vittoria e Abdul, le bassezze di sempre e la forza che cambia davvero il mondo

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Brilla l’occhietto ironico e disincantato di Stephen Frears, la sua poetica dell’irregolare, dell’anomalo, del non convenzionale, nel film Vittoria e Abdul, storia vera, tratta dall’omonimo libro di Shrabani Basu, sceneggiatura di Lee Hall, tra la regina Vittoria, negli ultimi anni della sua vita, e Abdul Karim, indiano e musulmano, da lei fatto salire agli onori della corte, non senza ostentate manifestazioni di sconcerto, che arrivano a coinvolgere lo stesso designato a succederle, il principe di Galles, nonché il primo ministro lord Salisbury.

Lei, per sua stessa ammissione, si sente così annoiata e oppressa dalla piaggeria, dall’adulazione, dalla falsità che la circondano, che, ad un certo punto, arriva a lamentarsi di non avere un briciolo di riservatezza, di privacy (la doppiatrice italiana, correttamente, pronuncia la parola inglese con la “i”). Vittoria cerca in tutti i modi di spezzare la rete degli intrighi, sino a decidersi a convocare al proprio cospetto, avvertita di una specie di ammutinamento, la corte al completo, sfidandone i membri, per chiedere a tutti, se ne hanno il coraggio, di fare cioè che minacciano alle sue spalle: dimettersi; ma nessuno si muove.

Non è la prima volta che Frears si occupa di regine: lo ha già fatto con The Queen, su Elisabetta II, nel 2006. Questa volta il film contiene una metafora piuttosto centrata. Vale a dire: prendere il tema interculturale, multirazziale, anche interreligioso (il sovrano britannico, dai tempi di Enrico VIII, è a capo della chiesa anglicana), collocarlo sin dentro lo stereotipo dell’età vittoriana, bacchettona, perbenista e conformista, e, nel gioco della maestà, in contrasto con essa, mostrare le bassezze, le meschinità, le volgarità, non solo di quel tempo, del nostro tempo, che si presume più avanzato ed emancipato, che proclama valori ma che è affetto da pregiudizi, xenofobi e razzisti, non meno imbarazzanti.

In mezzo ad uno stuolo di caratteristi, Abdul Karim è interpretato da Ali Fazal. La regina Vittoria da una Judi Dench ancora una volta impeccabile (che di anni ne ha ancor più di quanti ne avesse, all’epoca, la regina Vittoria). Il film è anche la storia di una relazione tra due persone. Vittoria perdona tutto ad Abdul. Lui diventa il suo Munshi, il maestro spirituale, le insegna a sentirsi un po’ meno prigioniera, un po’ più libera. La accompagna nel congedo, il 22 gennaio 1901, dopo un regno di 63 anni. Le parole scambiate con lui sino all’immergersi come goccia in un mare vasto ed eterno.

E’ anche un’alleanza del cuore, nell’intimità, nella complicità, tra la più alta in grado nella regalità e nel privilegio ed uno dei più esposti alle avversità materiali della vita, trattantosi di un indiano sottomesso al potere coloniale dell’impero britannico; che taglia fuori la mediocrità di ciò che sta nel mezzo, immerso nei pettegolezzi e nei pregiudizi. Solo politically correct? Forse anche una piccola conferma del fatto che certi cambiamenti, quando sono autentici, possono accadere a dispetto dei ruoli e degli schemi prestabili.

Marco Macciantelli

Allievo di Luciano Anceschi, dottore di ricerca in Filosofia, già coordinatore della rivista “il verri”, agli studi e alla pubblicazione di alcuni libri ha unito l'impegno politico di amministratore pubblico.