Se “sbagli la comunicazione” è perché non hai capito la realtà

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Cerchiamo di capire cosa s’intende per errore di comunicazione. La formula ricorre spesso nella cronaca politica ma non figura sui dizionari. Quello Treccani, per dirne uno, la ignora e altrettanto fa il De Mauro. Troppo recente perché sia registrata? Beh, non più di petaloso.

Sembrerebbe quasi un’espressione tratta dal gergo informatico: un po’ come l’errore 404, quando il computer non trova il server. E in effetti, nonostante riguardi il rapporto con l’opinione pubblica, “errore di comunicazione” ha un che di tecnico, suona come una diagnosi. Non a caso fa parte del lessico degli improvvisati guru nostrani, convintisi di poter manipolare il consenso in laboratorio.

Di sicuro a questo errore si attribuisce grande potere. Persino un referendum costituzionale, è stato sostenuto, sarebbe stato perso con sei milioni di voti di scarto a causa di un problema comunicativo. Affermazioni del genere, per quanto lunari, derivano da una granitica certezza: il giudizio degli elettori non è un problema in sé. Esso non va conquistato. Il punto è se si è capaci o meno di plasmarlo, giacché si può far accettare loro ogni cosa. Tutto dipende da come la si mette giù.

Ecco allora cosa significa errore di comunicazione: sbagliare il travestimento dei fatti. Lo sarebbe stato, per esempio, proporre la riforma Boschi come un modo per avere “meno politici”. Ma ad avere una macchina del tempo perché no, i nostri guru potrebbero sostituire quel significato con un altro e un altro ancora. Fino ad azzeccare quello giusto, come in una slot machine.

E’ evidente, in quest’approccio la verità delle cose non ha gran peso. Le parole vengono separate dalla realtà per produrne un’altra più gradevole. C’è solo un problema: tutto questo è semplicemente inefficace. Non produce trasformazioni. Il che di solito s’impara a proprie spese. E c’è una storia istruttiva al riguardo.

Pochi giorni dopo l’undici settembre – quell‘undici settembre – l’amministrazione Bush incaricò Charlotte Beers, grande manager pubblicitaria, di curare il rilancio dell’immagine statunitense presso il mondo arabo. Le intenzioni erano delle migliori: “Costruire il dialogo dove finora c’è il silenzio – dichiarò la manager – Cambiare i pregiudizi”. Il dipartimento di Stato istituì il Council of American Muslim for Understanding e finanziò con 15 milioni di dollari il lancio di un ambizioso piano di comunicazione battezzato Shared Values Initiative.

Il primo passo fu produrre brevi video sulla vita quotidiana dei musulmani negli USA. Un medico, un fornaio, un pompiere, una maestra… i filmati – ma c’erano anche radio e stampa – sarebbero stati mandati in onda nei paesi arabi durante il Ramadan, momento nel quale tutta la famiglia è riunita. Erano storie semplici e anche toccanti d’integrazione, prove di una convivenza possibile e della tolleranza occidentale. In seguito, quei testimonial sui generis sarebbero stati inviati nei paesi arabi per incontri e conferenze.

Shared Values Teacher

 

Shared Values: Doctor

 

La campagna uscì nel 2002. Ma andò male. Alcuni paesi rifiutarono di mandare in onda i filmati – Egitto, Giordania, Libano – e si diffuse subito un crescente scetticismo sull’iniziativa. Era brutta l’idea, erano fatti male i video? No, semplicemente la realtà stava andando in tutt’altra direzione. Enduring Freedom già da tempo bombardava l’Afghanistan e gli Stati Uniti continuavano ad appoggiare regimi illiberali. Vista l’accoglienza, il Dipartimento di Stato bloccò la campagna neanche un mese dopo il lancio.

Charlotte Beers tentò di proseguire nel suo compito, con pubblicazioni e altre iniziative, finché nel 2003, due settimane dopo l’invasione dell’Iraq, rassegnò le dimissioni. Aveva avuto buone intuizioni, lo ammise anche Naomi Klein – non certo una sostenitrice di Bush – ma in quella fase decantare il modello americano era apparso pura propaganda. Altro che metterla giù. Qui erano stati i fatti a prendere decisioni.

Di fronte alla realtà il comunicatore dovrebbe essere rispettoso come lo è il marinaio del mare o lo scalatore della montagna. La realtà non è a sua disposizione. Tantomeno gli elettori.

Giuseppe Mazza

Copywriter, dopo dieci anni in Saatchi&Saatchi e Lowe Pirella ha fondato Tita, la sua agenzia. Dirige Bill Magazine, la rivista italiana di studi sul linguaggio pubblicitario. Ha pubblicato "Bernbach pubblicitario umanista" e "Cose Vere Scritte Bene" (Franco Angeli). Ha scritto per Cuore, Comix, Smemoranda, Il Venerdì.