Una questione democratica. Tutte le ombre del Rosatellum

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“Con il voto di fiducia sulla legge elettorale, si apre una questione democratica grande quanto una casa”. Mentre le parole di Pierluigi Bersani echeggiano per i corridoi del Transatlantico, la questione democratica collegata alla materia elettorale riemerge in tutta la sua evidenza, con il suo carico di anomalie, criticità e zone d’ombra: zone d’ombra che abbracciano il profilo storico ed etico della materia trattata, per rifluire poi su quello squisitamente giuridico.

Sul piano storico ed etico, non può non ravvisarsi la tendenza – inaugurata nei giorni del “colpo di mano” ordito da Berlusconi nel 2005, per impedire la sicura vittoria dell’Unione alle successive elezioni politiche – a trattare la legge elettorale come uno strumento utile ad assecondare le esigenze della maggioranza contingente in danno delle forze di opposizione. Una tendenza che ispirava la legge n. 52 del 2015 (c.d. Italicum), evidentemente funzionale all’aspirazione di Matteo Renzi – artificiosamente anabolizzata dal risultato europeo – di individuare nel Partito della nazione l’argine contro populismi di varia foggia e dimensione; una tendenza che permea anche l’ennesima variante del Rosatellum, volto a favorire i partiti collegati in raggruppamenti d’occasione (ancorché non uniti dal vincolo del programma comune, presupposto indispensabile per la costruzione di una coalizione degna di tale nome) in danno dei partiti non coalizzabili.

Sul piano giuridico, non sfugge invece come la Corte costituzionale, nella sentenza n. 1/2014 con la quale è stata dichiarata l’illegittimità del Porcellum, abbia espressamente affermato che il valore della governabilità (obiettivo la cui attuazione in verità dipende più dal comportamento degli attori politici che dalle soluzioni adottate a livello legislativo) deve sempre trovarsi in una posizione di equilibrio con quello della rappresentatività, con il diritto dell’elettore di scegliere il proprio rappresentante in seno all’Assemblea di riferimento.

Ebbene, sotto questo specifico aspetto, il disegno di legge sul quale il Governo ha posto la fiducia – evidentemente spinto dalla necessità di individuare un sistema omogeneo per l’elezione di deputati e senatori, figlia illegittima della scelta di approvare, nel non lontano 2015, una legge valevole per la sola Camera, confidando nel felice esito di un percorso di riforma della Carta fondamentale invece destinato ad infrangersi sulle secche del referendum del 4 dicembre – presenta paradossalmente limiti più evidenti di quelli che caratterizzavano l’impianto dell’Italicum, smembrato dalla Consulta con la sentenza n. 35 del 2017.

Se infatti la più volte citata legge 52/2015, emendata dall’effetto dopante del ballottaggio, assicurava almeno all’elettore il beneficio della preferenza per uno dei candidati in lista – beneficio peraltro attenuato dalla presenza dei capilista bloccati -, il suddetto beneficio viene totalmente sterilizzato dal ddl al momento in discussione, nella parte in cui prevede (oltre all’assegnazione di un terzo dei seggi attraverso i collegi nominali, e dei restanti due terzi tramite un proporzionale puro con liste rigide) che il voto espresso a favore del candidato nel collegio uninominale venga automaticamente travasato sulle liste bloccate ad esso collegate.

Gli effetti di questa opzione normativa sono facilmente determinabili: nomina dei parlamentari totalmente rimessa nelle mani dei capi-partito, definitivamente trasformati nei protagonisti di una sorta di satrapia 2.0; indebita sovrapposizione del legame fidelistico tra eletti e leader al naturale vincolo di responsabilità politica tra il parlamentare e i suoi elettori; ulteriore emersione della frattura in essere tra partiti, istituzioni e cittadini, nuovamente depredati dello scettro della sovranità e indotti o a rifugiarsi nel limbo dell’astensionismo, o ad alimentare il fuoco del voto di protesta.

Logica conseguenza della già descritta tendenza ad utilizzare la legge elettorale quale strumento di lotta politica; logica conseguenza delle tante zone d’ombra che stanno alla base di quella “questione democratica grande come una casa”, di cui le parole di Bersani hanno solo confermato la preoccupante attualità.

Carlo Dore jr.

Quarantadue anni, cagliaritano, docente universitario. Da sempre a sinistra, senza mai cambiare verso.