Dopo l’outing di Bergoglio. La fede vista dallo psicoanalista

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Apprendiamo dalla stampa che Papa Bergoglio è andato in passato dall’analista, traendone beneficio. Sappiamo che in Argentina la consultazione con analista è pratica assai diffusa e radicata nel costume sociale.
Chiunque pratichi la psicoanalisi, non può che sentirsi rinfrancato da questa dichiarazione. E’ infatti alquanto positivo constatare come fede e psicoanalisi possano non confliggere, ma allearsi per la risoluzione delle problematiche del soggetto.

Qual è il peso della fede nel percorso di vita dei pazienti che vanno da un analista? Mi è capitato più volte di incontrare Dio nel mio studio. Il Dio riportato nelle parole, nei sogni, nelle imprecazioni degli analizzanti sul lettino. Molti avevano più di un motivo per invocarlo, ringraziarlo oppure maledirlo. Chi per la nascita di un bambino con gravi problematiche fisiche, chi per il lavoro perso, chi invece per un matrimonio spezzato. Altri per la salute andata in fumo, di colpo, dopo una diagnosi infausta. Altri invece attribuivano all’onnipotente il felice incontro con l’anima gemella, o la riuscita di una delicata operazione. Ho sentito narrare di un Dio che si manifesta per la sua immanenza e ineluttabilità, o per la sua radicale assenza. E’ questo ha che influito nelle vite di alcune persone affette da nevrosi o, in qualche caso, dichiaratamene psicotiche.

Ho sempre trovato una differenza sostanziale nella capacità di assorbire i colpi della vita da parte degli appartenenti ai due estremi della linea del credo: gli atei, coloro i quali hanno sempre fatto a meno di un Dio, e i fedeli convinti della sua presenza, non sempre benevola si badi, ma proprio per questo indubitabile. Coloro per i quali vale il Salmo: Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone mi dà sicurezza

Gli appartenenti al primo gruppo sono naturalmente dotati di una fede incrollabile nell’uomo, nelle sue virtù, e al contempo armati di una immensa riserva di cinismo, lunga quanto la vita intera, devoti all’idea che l’uomo contenga in sé la capacità di sopportare ogni peso che il tempo gli riserva, senza dover chiedere aiuto o sostegno a qualcosa che non sia razionalmente spiegabile. Molti di loro hanno patito colpi tremendi della sorte, a volte letali, il che nel loro sentire fa parte dell’infinito gioco delle possibilità al quale si è esposti quando si viene al mondo. ‘Va così, dottore, perché questo doveva essere’ mi ha detto tempo fa un padre che ha perso moglie e figlio in un incidente stradale. Sono sicuramente soggetti alle sferzate della depressione, alle cadute del tono dell’umore, all’angoscia che riconoscono come elemento umano essenziale. Desiderano farla finita, senza troppe lamentele, ma con lucida presa d’atto che la benzina della loro anima è terminata.  L’impossibile appello a un’entità trascendente li priva di qualsiasi giaculatoria. Non chiamano in causa la sorte, le avversità. Sanno di non scontare il fio di alcun peccato, perché al peccato non credono. Ma credono alla colpa. Sono i protagonisti assoluti della loro vita, nel bene e nel male. Se compiono atti estremi, come ad esempio il suicidio, difficilmente lasciano testamenti accusatori contro questo o quello. Sanno di essere portatori di un rischio esistenziale congenito, e se ne assumono ogni responsabilità.

All’estremo opposto stanno invece i credenti convinti. La loro fede incrollabile è il sintomo che permette loro di sostenere vite durissime, a testa alta, perché certi di essere solo di passaggio, destinati a rendere conto ad un alterità tutta da guadagnare. Per costoro il senso del peccato frena considerevolmente gli intenti suicidari. Ho ascoltato persone con pochi mesi di vita venire in studio sorridenti perché certi di ricongiungersi ai propri cari. Ho parlato con uomini che hanno perso in poco tempo lavoro e famiglia, senza mai perdere la fede in un Dio, nel disegno del quale si sentono inglobati. Un Dio dai disegni imperscrutabili, dei quali loro sanno di essere piccole pedine lanciate sul tappeto. A Dio piacendo si vive e si muore, ci si ammala, o ci si sposa, certi che in un aldilà le trame che li hanno guidati saranno rischiarate. Insomma, Inshallah.

In entrambi i casi, l’assenza e la presenza di un Dio, sono in un ultima analisi un atto di fede. Una costante di coerenza. La consapevolezza che non c’è nulla, o c’è qualcosa, che li precede e ad essi sopravviverà. Ma non si cura di loro, non ne tiene in conto. Ha ben altro da fare che interessarsi alle loro vicende. Più critica invece la condizione nella quale la fede religiosa si accomoda nella stanza dell’analista, o diventa una folgorazione fuori tempo massimo.

Ho sentito colleghi dichiarare di aver riscoperto un senso religioso nel momento in cui sono diventati genitori, quando pareva che ciò non fosse possibile. Non so, per questioni personali e professionali, questo loro Dio non mi convince. Sarà perché sono diventato padre, e mia figlia è sana e vivace, che non me la sono sentita di considerarmi un privilegiato scelto dall’onnipotente. Mica per nulla, ma perché ho visto tante madri perdere il figlio. Sono stato al fianco di uomini e donne che hanno percorso strade irte di difficoltà materiali, spirituali ed economiche per raggiungere un concepimento troppe volte andato in fumo. Ho visto mogli attendere in modo trepidante l’arrivo del nascituro, colpite dalla sorte in sala parto, tramutando l’evento che doveva essere gioioso in una tragedia. Ed è proprio osservando le loro vite che ho imparato che non è a loro che si deve chiedere se Dio esiste.

Il lavoro di analista, si sa, mette in gioco le proprie questioni ogni giorno con la vita di altri essere umani. Il raffronto è inevitabile, il lavoro per non lasciare trabordare il controtransfert è un impegno quotidiano. E’ per questo motivo che, quando mia figlia è saltata fuori, non mi sono sentito né scelto, né unto dal divino, né ho percepito il manifestarsi di una qualche misericordia personale. Troppe storie storte, troppe fatalità, troppi desideri di paternità o maternità divenuti anticamera del buio ho visto in questi lunghi anni, per non trovare la capacità logica e razionale di ficcarmi nel gran calderone statistico di quelli che, semplicemente, hanno avuto fortuna. Non mi è passato per un solo attimo in mente l’idea di convocare Dio, che avrebbe scelto me, e si sarebbe dimenticato di tutte le madri e padri sventurati visti in seduta. Troppo facile, troppo banale. Un Dio comodo, che ti aspetta all’imbrunire, dopo che per tutta la vita hai fatto il possibile per negarne l’esistenza.

Ho  toccato con mano la sofferenza pura ed indicibile del melanconico. Il desiderio di fine vita dello psicotico che perde progressivamente la forza di lottare contro le visioni notturne. Troppe storie mai raddrizzate, per dare credito a un Dio del quale ti accorgi solo quando la vita ti sorride, mentre ogni giorno osservi vite altrui rotte, spezzate o troppo dure da sostenere e portare avanti.

Maurizio Montanari

Psicoanalista. Responsabile del centro di psicoanalisi applicata LiberaParola di Modena (www.liberaparola.eu). Membro Eurofederazione di psicoanalisi