Una leadership senza gregari? Non è questione di comandare, ma di avere cervello

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In ogni formazione politica sempre si pone la questione della leadership, non solo di cosa ci si aspetti da chi ricopre la posizione apicale nell’organigramma, ma anche delle caratteristiche personali necessarie a svolgere la relativa funzione. Questa questione si sta ponendo, con sfumature diverse, in tutti i partiti italiani. Nel Pd il segretario è stato riconfermato, eppure il modello di leadership che questi ha praticato negli ultimi anni è stato oggetto di critiche quantitativamente rilevanti. Se è vero che, come dichiarato da Piero Fassino, “la leadership di Matteo Renzi non è in discussione”, è però anche vero che il modo in cui questa è stata esercitata è ben altra cosa, e su questo tema la discussione è – come dichiarato da Franceschini – “solamente iniziata”. La questione si è posta anche dopo la manifestazione “Insieme”. Le “perplessità” ed il “poco coraggio” rispettivamente espresse e rilevate da Nicola Fratoianni e Tomaso Montanari rispetto a Giuliano Pisapia non sono tanto una valutazione sulla persona in sé, quanto sull’adeguatezza di Pisapia rispetto a una data visione del dover essere del leader, nel discorso così come nell’azione.

Lungi dall’essere un tema nuovo, quello della “giusta taglia” del leader, della persona chiamata a calzare un certo ruolo, è una domanda senza tempo. Pensiamo a Papa Giovanni XXIII: non essendo stata in alcun modo prevista la sua elezione, appena terminato il conclave si scoprì che nessuno degli abiti preparati per il futuro pontefice era della giusta taglia per il non proprio longilineo Patriarca di Venezia. La giusta taglia non è però solo una questione di fisico, ma anche di attitudine e di temperamento. Alfredo Reichlin, a proposito di Enrico Berlinguer (che se non era lui un buon leader per la sinistra italiana, allora si perde la speranza di trovarne uno) sosteneva che “non era un uomo adatto a questo mestiere. Una persona fisicamente e psicologicamente adatta a fare il bibliotecario, è andato a scegliersi il mestiere più folle… e però lo ha assunto come una missione, quasi una cosa religiosa”. Queste parole fanno riflettere. Se Berlinguer era indiscutibilmente un leader, e cionondimeno non aveva in questo un talento naturale, allora forse che la leadership non sia solo una questione di comando, di discorso pronto, o peggio di retorica e fotogenia?

Più generale però è un altro problema: come si valuta la buona leadership, ovvero come possiamo capire i segni dei tempi e definire quale forma di attitudine un leader debba avere per guidare un paese (o un partito) non verso un successo effimero, ma verso la ragionevole costruzione di qualcosa di buono e di durevole. Da questo punto di vista la leadership tradizionale, quella dell’uomo forte al comando e che comanda inducendo all’obbedienza, è messa in questione non da considerazioni politiche (ai renziani – legittimamente – piace un Renzi forte, ai berlusconiani piace un Berlusconi forte, e così via), ma da ragioni legate all’evoluzione del cervello umano. Questo è chiaro se riascoltiamo l’intervista, del 2009, di Fabio Fazio a Rita Levi Montalcini. In essa la senatrice a vita dichiarava: “Le tragedie che possono portare all’estinzione della nostra specie derivano dal fatto che alle volte prende il sopravvento, nel nostro comportamento, la componente più antica del nostro cervello (il sistema limbico). L’uomo nasce remissivo, gregario, non nasce con il bisogno di fare del male, diventa fautore del male perché accetta passivamente (questo lo sappiamo nei regimi totalitari) l’ordine del cosiddetto capo o l’ideologia dominante. Questa componente io la ritengo responsabile di tutto quanto di tragico accade attorno a noi. La conquista più urgente è di dare alla componente neocorticale del cervello (quella che ha portato allo sviluppo culturale) il controllo del nostro modo di agire”. Indro Montanelli sosteneva, in una famosa intervista apparsa sull’Unità il 25 ottobre 1994, che: “in Italia a fare la dittatura non è tanto il dittatore quanto la paura degli italiani e una certa smania di avere, perché è più comodo, un padrone da servire. Lo diceva Mussolini: «Come si fa a non diventare padroni di un paese di servitori?».

Come si fa allora a non diventare leader quando si è attorniati da remissivi-gregari (magari non per scelta, ma per abitudine a lasciar controllare il proprio comportamento dal sistema limbico)? Le considerazioni della Montalcini non solo ci danno la risposta (ovvero capendo che la gregarietà può gratificare l’ego ma è ultimamente distruttiva), ma ci danno anche speranza. Perché nessuno è destinato a rimanere servitore, schiavo della propria gregarietà, bensì tutti possiamo emanciparcene, creando ambienti e situazioni che accettino (e anzi promuovano) il dissenso e la discussione, condizioni essenziali affinché ciascuno possa obbedire non al capo, ma ad un convincimento interiormente maturato.

Surriscaldamento globale, cementificazione, disuguaglianze economiche, guerre e via discorrendo non sono cioè il frutto di un bisogno umano di fare il male, ma della gregarietà rispetto a modelli comportamentali sbagliati che vengono praticati, o non contrastati, perché non compresi nella loro fondamentale erroneità, nel loro essere male. Questo male che viene fatto in quanto schiavi della gregarietà è banale e mai radicale perché, ricordando Hannah Harendt, il male può essere assoluto, come la muffa che tutto copre, ma non ha radici perché non ha consistenza, è la gregarietà vittima di se stessa.

Da questo punto di vista la buona leadership è quella capace di includere, rendendo tutti esseri sempre più pensanti e sempre meno gregari. A prima vista questo potrebbe sembrare in contraddizione rispetto a quella lezione sulla politica che Romano Prodi ha recentemente dichiarato di aver appreso da Helmut Kohl: “La politica deve analizzare, poi semplificare, decidere e poi rimanere ferma”. In realtà la contraddizione è risolta se si comprende che il leader non analizza la realtà da solo, ma in modo collegiale, e che semplificazione e decisione non possono che essere coerenti con (e dunque includere) tutte le risultanze emerse in fase di analisi. Per fare questo il leader è si un primo fra pari, presiede un consiglio (sia esso una segreteria di partito o un Consiglio dei Ministri) ma non parte dalla propria visione, permettendo che questa maturi a partire dai contributi degli altri. Questa visione è coerente con il paradigma della conciliarità, che si fonda sull’idea che “nessuno è detentore della verità assoluta, ma solo nel consiglio, inteso come metodo costante di confronto, si può ambire alla vera sapienza”.

Parole queste del sindaco di Torino, Chiara Appendino, nel suo discorso di insediamento, a ricordo del motto affrescato nella sala consiliare: “Ego Sapientia habito in Consilio”. Lo stesso principio della conciliarità è, in riferimento alla Chiesa, ben espresso nelle parole del Vescovo emerito di Ivrea (monsignor Luigi Bettazzi): “Nella Chiesa non ci deve essere uno che comanda e tutti gli altri che obbediscono passivamente. Ma c’è chi ha il dono, il carisma, il dovere dell’ultima parola. Ma è l’ultima se e prima ce ne sono state delle altre”. Così intesa, la buona leadership non è necessariamente quella che viene naturale, il carisma dell’istrione che attira le folle, che incanta i serpenti (non a caso l’homo sapiens ha il sistema limbico in comune con i rettili) e, come il pifferaio di Hamelin, conduce le folle alla catastrofe collettiva. Essa è invece l’umiltà del mettersi a disposizione, del lasciar spazio agli altri, del non dire tutto e non dirlo mai per primi. In questo senso anche la gerarchia (che in una qualche misura è sempre necessaria, in qualunque organizzazione, dai partiti agli stati) si ribalta: da gerarchia del comando diventa gerarchia del servizio, e il leader da colui che “non ha bisogno di collaboratori, bensì di esecutori” diventa colui che esercita la “primazia del servizio”, colui che serve il collegio e che, con il suo esempio, garantisce che a loro volta i membri di questo servano – a cascata – i loro sottoposti.

E’ questo peraltro il messaggio di un importante discorso di Papa Francesco, nel quale l’essenza collegiale della Chiesa è espressa col centrale richiamo alle scritture: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo» (Mt 20,25-27). Da questo punto di vista un centrosinistra che davvero voglia far tesoro dello spirito radicale dell’Ulivo dovrà saper riconoscere che le vecchie aspettative di leadership sono passate. Il capo, una volta capita la Montalcini, è un re nudo, un prestigiatore di cui si è capito il trucco. La vera leadership è invece quella di chi non dice tutto, di chi non attira le folle a sé, ma che in questo dà la migliore garanzia di essere il più adatto a servire, a lasciare che gli altri si mettano in luce, esprimano le proprie idee, pur senza trasgredire al dovere di rispettare il carisma (da karisma=servizio) dell’ultima parola, non come asservimento ma come riconoscimento della funzione: presiedere al bene comune garantendo che il collegio si diriga (di qui l’origine del verbo to lead, dal quale viene la parola leader) verso di esso.

In questo modo il leader non si traduce nel padrone: non è lui a decidere la direzione, ma serve il collegio così permettendo che si arrivi a analizzare – insieme – la realtà, semplificarla, decidere in quale direzione andare, poi facendosi carico di mantenere la barra diritta verso la meta. Solo questo tipo di leadership potrà darci speranza di prevenire “tutto quanto di tragico accade attorno a noi” così riducendo il rischio che si tenda- sempre nelle parole della Prof.ssa Levi Montalcini- “all’estinzione della nostra specie”. Sono considerazioni pesanti, forse anche angosciose. La soluzione non è semplice, richiede di abbandonare l’idea che si possa delegare ad un leader forte, preferendo invece la debolezza del seme, che aprendosi genera l’albero. Abbiamo bisogno non di leader nuovi (la cui novità troppo spesso si riduce al nome o all’età anagrafica), ma di una nuova leadership, fondata sul servizio e che così, facendosi piccola, dia spazio a quella partecipazione diffusa e strutturale che è l’antidoto alla gregarietà della parte più antica (e più bestiale) del nostro cervello. Su questo cammino le considerazioni svolte da Papa Francesco sulla dinamica e sui principi fondanti la riforma della Curia Romana non possono che essere utilizzate – almeno in parte – per progettare nuove forme di rappresentanza politica che sappiamo contribuire a quella che la Montalcini definiva la “conquista più urgente”: permettere agli individui e alle collettività di affrancarsi dalla gregarietà, così agendo in modo sempre più pienamente autocosciente. Questo però presuppone (perché “la vera anima di ogni riforma sono gli uomini, che ne fanno parte e la rendono possibile”) che ognuno e tutti si riveda criticamente ciò che ci si aspetta da un leader. Esiste infatti “un forte legame di interscambio fra l’atteggiamento personale e quello comunitario”. Non più un capo, ma un compagno di viaggio. Non più un dispensatore di soluzioni a volte vuote e spesso a buon mercato, ma un facilitatore della discussione. Non più un feudatario della gerarchia, ma un primo nel carisma del servizio, e così un leader che sappia condurre fuori dal deserto della gregarietà, verso il vero progresso umano come sviluppo integrale della persona umana.

Gabriele D'amico

Torinese, avvocato, appassionato di diritto ed economia della cultura, dottorando fra Berlino e Gerusalemme in diritti umani e diversità culturale. Consapevolmente olivettiano, credo nella capacità umana di superare la gregarietà del sistema limbico e ragionevolmente spero in un futuro di sviluppo umano integrale.