La prosecuzione del vecchio con altri mezzi: l’inganno del “Nuovo” secondo Damilano

| Lo Spuntino

C’è qualcosa di nuovo in politica, anzi d’antico. Fin troppo facile citare Giovanni Pascoli, scorrendo il nuovo lavoro di Marco Damilano, “Processo al nuovo”, edito da Laterza, da poco in libreria. Il giornalista, vicedirettore dell’Espresso, star di Gazebo e prezzemolo di tutti i talk show, propone una rilettura a volo d’uccello sugli ultimi decenni di Repubblica, cercando come filo conduttore la retorica del “Nuovo”, inteso come promessa eternamente mancata di cambiamento epocale e radicale, ma anche come messaggio determinante per la conquista del potere. Con la conclusione che il nuovo da noi si è sempre rivelato effimero, ingannevole e persino già visto. La prosecuzione del vecchio con altri mezzi.

Ogni grande novità annunciata nella storia recente della nostra comunità, sostiene Damilano, una volta al potere ha finito per entrare nel solco di chi l’aveva preceduta, farsi in qualche modo establishment e subire la sorte di chi era vecchio prima. Un’analisi che si sottrae alla retorica dominante del “cambiamo tutto”, una doccia fredda, in un’epoca in cui la proposta politica si reclamizza, ancora una volta, come radicalmente rivoluzionaria. Una lettura storica, che mette i “rottamatori” renziani e gli “apriscatole” grillini in linea con esempi del passato che ne svelano il corto respiro.

Senza schierarsi, Damilano smorza gli entusiasmi, smaschera la propaganda, individua i tratti fisiognomici del déjà-vu dietro la cartapesta in stile rivoluzionario del falso innovatore. Il suo non è tanto un “processo”, come vorrebbe il titolo, ma una requisitoria, un atto d’accusa. Una messa in guardia contro la retorica accattivante che ci affascina promettendo di voltare una pagina che alla fine risulta essere troppo simile alle precedenti.

Nella tormentata storia della Repubblica, dalla tragedia di Moro in poi, il “nuovo” è sfuggente, impalpabile, inafferrabile. Lo si intravede all’orizzonte e, quando si fa per prenderlo è già sparito, come la mitologica pantera che affascinò l’Italia intera nel 1990. Chi ha l’età per ricordarlo non ha dimenticato la fuga di quell’animale dal circo, i suoi avvistamenti, le voci incontrollate che si rincorrevano, non solo a Roma, sui suoi nascondigli, sui suoi spostamenti. La pantera c’era, eppure nessuno l’ha mai più trovata. Diventò il simbolo di una generazione che voleva essere nuova, superare le tensioni drammatiche degli anni Settanta e l’insostenibile leggerezza degli anni Ottanta. Damilano, che all’epoca aveva 22 anni, è proprio di quella generazione. Volevamo essere nuovi, sembra dire fra le righe, ma siamo diventati vecchi.

Per svelare la fatuità del Nuovo è inevitabile partire dalla fine, come fa Damilano. La data fondamentale è il 4 dicembre 2016, il disastro del referendum costituzionale renziano. “La sconfitta degli innovatori del 2016 – scrive Damilano – arriva da lontano”, e si chiede: “Perché il Nuovo, i tanti che si sono autoproclamati nuovi in questi anni, si è rivelato così inadeguato di fronte all’impresa?”. L’elenco degli errori attribuiti agli innovatori, Renzi compreso, è impietoso: “Incoerenza con i propositi annunciati: predicare merito e talento e promuovere gli amici. Debolezza politica. Fragilità culturale. Incapacità organizzativa. Inconsistenza progettuale. Superficialità. Fiducia smisurata nella comunicazione e sfiducia nel potere di convincimento  e di persuasione. Scommessa sulla forza e non sulla mitezza. Corteggiamento degli istinti più bassi del Paese, dal verso del pelo (per esempio, tagliare le poltrone), e timidezza nell’aprire una sfida più alta”.

Con l’avvertenza marxiana che la storia non si ripete, Damilano sembra affascinato da un parallelo che è venuto in mente a molti: quello fra la parabola di Renzi e quella di Craxi. La sua è un’analisi storica forse troppo rapida (il libro ha appena 111 pagine) ma non banale, che attraversa la nostra storia e indugia sull’era craxiana, che Damilano rievoca a partire dal congresso di Palermo del 1981 e narra fino alla drammatica fine poco più di dieci anni dopo.

In mezzo, quella che Damilano non a caso definisce la “narrazione” craxiana, lo “storytelling”, espressioni da poco in auge per definire lo stile renziano. E la narrazione del craxismo ha qualcosa di nuovo, anzi d’antico, anche oggi: “Il vecchio è luttuoso, cupo, pessimista. Il nuovo è prorompente, vitale, ottimista. Il nuovo è sexy”. Malinconica e tremendamente attuale la parabola del leader socialista: “All’appuntamento con la storia – racconta Damilano – Craxi arriva come il leader non della nuova sinistra, ma della nuova destra, nonostante l’appartenenza all’Internazionale socialista”. Il partito conquistato dall’interno da Craxi, progressivamente, diventò “un partito personale, quando i partiti personali ancora non esistevano”. Fino alla fine, individuata nei 27 milioni di Sì al referendum del 1991, quando “la leadership di Craxi, partita all’insegna dell’innovazione, naufraga e si spiaggia come un cetaceo affaticato di fronte a un voto referendario, come accadrà molti anni dopo, il 4 dicembre 2016”.

Spulciando fra le pieghe della storia e della cronaca, Damilano individua tracce evidenti della retorica del Nuovo anche nei protagonisti successivi. Per esempio De Mita, che già nel 1983 dice a Scalfari: “Destra e sinistra sono schemi mistificanti. Non ci si distingue più in quel modo. La vera dialettica è fra vecchio e nuovo”. Si arriva poi agli anni Novanta, con il Muro caduto, tangentopoli, il PCI che cambia nome. Ed ecco irrompere sulla scena politica soggetti sorprendenti: i “barbari” leghisti e Silvio Berlusconi, descritto come “il nuovo in abiti antichi, destinato a incontrarsi con il vecchio travestito da nuovo”. Ma anche Prodi e l’Ulivo, definito “il giusto equilibrio fra la competenza tecnica e la passione politica”, l’”abbattimento della storica barriera tra laici e cattolici. Il collegamento tra Europa e Italia, inserite in un unico racconto, in una sola politica, non una contrapposizione. Il leader come federatore tra diversi partiti e culture politiche e non come padrone, proprietario, despota della sua coalizione”

Spietata la sentenza: “Dopo un quarto di secolo occorre chiedersi cosa sia rimasto di tutta questa novità annunciata. In un ipotetico processo alla Seconda Repubblica e ai suoi cambiamenti presunti, il testimone conservatore, nostalgico dei bei tempi andati, quelli dei partiti di massa, non avrebbe dubbi: è cambiato tutto, e in peggio”.

Gli anni Novanta terminano con la caduta del governo dell’Ulivo e le dimissioni di D’Alema, sconfitto alle Regionali del 2000. Anche a D’Alema Damilano rimprovera la presa arrembante del potere, i “collaboratori servizievoli e replicanti che escono da backstage e vengono promossi a parlamentari, ministri, vertici di partito: quello che ti reggeva il cappotto diventa coordinatore nazionale, quello che chiamava il taxi per il leader viene promosso a tesoriere del partito”.

Si attraversa così il nuovo berlusconismo del Duemila, la crisi economica, Monti, fino all’irrompere dei grillini, il “nuovo” per eccellenza, forse. Il Movimento 5 Stelle sbaraglia il sistema nel 2013, ma resta prigioniero delle “contraddizioni tra il verbo casaleggiano e la sua incarnazione nella realtà”, e non scioglie ancora “la sua natura e probabilmente non lo farà mai, lasciando senza risposte le continue domande di trasparenza e chiarezza che arrivano dagli avversari ma anche da giornalisti non di parte”. E la domanda numero uno è: “Da dove vengono i soldi?”. Oggi i grillini non sono più una novità, sono una “storia di successo”. Ma anche, argomenta Damilano, una promessa mancata. Il nuovo che promettevano di portare “non si vede più. E quel poco che resta di nuovo preoccupa”.

E si finisce per forza di cose a Renzi, “intelligenza innata, istinto sano e talento per l’inganno, mancanza di vita interiore”, una “mescolanza ormai non più distinguibile tra quello che c’è dentro, i valori, la biografia personale, l’esperienza, e quello che è necessario mostrare fuori: la tattica, la comunicazione, la propaganda, la vita come uno storytelling”. Renzi è “il primo leader generalista che si muove senza confini visibili”, senza “limiti ideologici o personali”, che aggredisce simboli della sinistra, come l’articolo 18, cercando e trovando il “nemico tra partigiani, operai, giornalisti, costituzionalisti, intellettuali”.

Come altri in passato, Renzi occupa con protervia il potere, permettendo che il Giglio magico si muova con spregiudicatezza “per impossessarsi di pezzi dello Stato, enti pubblici, consigli di amministrazione”. Iconografica la figura di Maria Elena Boschi, “la prova vivente della rapida metamorfosi del renzismo: da giovane outsider arrivata dalla provincia toscana a donna di potere contesa dai salotti, decisa a non mollare nessuna delle posizioni conquistate”.

Come per Craxi, l’epilogo del renzismo, almeno nella sua prima fase, arriva con il referendum, con una campagna “sbagliata all’origine”, che ne rivela i limiti strutturali e le inadeguatezze culturali.

Il fallimento di Renzi si archivia con quelli di chi si è proposto prima come Nuovo. Di fallimento in fallimento, il Nuovo sembra sempre di più ripetersi come una finzione, una promessa retorica, un mezzo per prendere il potere. Il Nuovo non innova, ma conserva, perpetua e si perpetua, in virtù del proprio fallimento, della negazione di se stesso. Se ne avvantaggiano quelli del “fronte trasversale della conservazione, che in Italia esiste ed è fortissimo”, e che ha “condannato l’Italia alla mancanza di ricambio a tutti i livelli”. E’ il fallimento del riformismo italiano, “esangue e troppo muscolare, ma sempre inconcludente. Leggero fino alla vanità, se non alla vacuità. E spesso – conclude Damilano – fin troppo simile nei metodi ai predecessori che voleva rottamare”.

Poldo

Poldo crede nei piccoli spunti. E negli spuntini.