Ventinove anni fa, il 18 maggio 1988, ci lasciava Enzo Tortora, vittima del giustizialismo becero, della superficialità e dell’ignoranza della folla, dell’arroganza di alcuni magistrati, della connivenza di tanti giornalisti. Dopo quasi trent’anni, spiace dirlo, ma la lezione non è stata imparata. Il giustizialismo regna ancora sovrano, la presunzione di colpevolezza domina ancora incontrastata ad ogni indagine, annichilendo regolarmente la presunzione di innocenza. Quotidiani, settimanali, trasmissioni di cronaca rinunciano troppo spesso alla propria funzione di controllo e alla propria imparzialità e diventano regolarmente strumento dell’accusa, gettando innocenti in pasto ad un’opinione pubblica ansiosa di impugnare il forcone e di sentire il rumore dei chiavistelli.
I social sono il nuovo regno di questo clima da colonna infame, dove l’indagato, spesso chiuso in carcere prima del processo, viene spolpato vivo senza alcuna possibilità di difendersi. Tortora patì questo orribile Calvario, ma alla fine ne uscì, la sua innocenza venne riconosciuta e il processo ignobile al quale fu sottoposto venne smascherato, grazie anche all’impegno di pochissimi ostinati cercatori di verità, come il grande, indimenticato Enzo Biagi. Ma cercare la verità costa tempo, fatica, coraggio di distinguersi, di mettersi contro la maggioranza urlante. Cercare la verità significa spesso ostinarsi a scavare, a chiedere, a non fidarsi, invece di pubblicare tale e quale quello che viene selezionato e passato di nascosto dall’accusa. Quanti giornalisti, fra quelli che oggi commemorano Tortora, possono dire di avere davvero capito e imparato quella lezione?