Vero o fake, la crociata al contrario. Perché la verità è hard

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La campagna elettorale è iniziata con un solenne attacco alle cosiddette fake news. Guardatevene – è stato affermato – poiché potrebbero falsare anche i risultati elettorali. Quasi una piaga biblica. Stupisce che, davanti a un elettorato che ha fame d’informazione credibile e si abbevera ai social ogni giorno, la risposta migliore sia tacciarlo di creduloneria. Certo, può darsi che costoro prendano anche qualche granchio, ma di sicuro tutti insieme stanno cercando una sola cosa: verità.

E dispiacerà, ma oggi l’establishment non è ritenuto in grado di garantirla. Il che è già accaduto in passato. Lo storico Marc Bloch raccontò che, durante la prima guerra mondiale, i soldati al fronte credevano alle dicerie più fantasiose proprio perché “tutto poteva essere vero, ad eccezione di quello che si consentiva di stampare”. Insomma, in trincea l’unica certezza era che le versioni istituzionali dei giornali nascondessero qualcosa. E il bisogno di verità cresceva. Portando a un’ansiosa – quanto comprensibile – ricerca di fonti alternative.

Una certa mancanza di senso della storia porta poi a enfatizzare l’attualità dell’argomento, che riguarda invece le origini stesse della propaganda politica. A pensarci, infatti, non è una primordiale fake news quella che giurava i comunisti mangiassero i bambini? Una leggenda nata dopo le carestie degli anni venti e trenta in Unione Sovietica e diffusasi in tutto l’occidente, della quale di recente è stata ricostruita l’origine dallo storico Stefano Pivato. Fu adottata in Italia dalla propaganda politica di Salò, creando ciò che oggi gli specialisti dell’attualizzazione di qualunque cosa chiamerebbero un potente buzz, in altre parole il vecchio passaparola.

Ma ciò che non convince nella campagna contro le fake news non è tanto la sua assenza di analisi storica. È che sia il potere politico stesso a promuoverla. In democrazia non dovrebbe competere a esso la sorveglianza dei modi in cui è raccontata la realtà, magari anche inferendo nel giornalismo come nell’intrattenimento, scegliendo tra buoni e cattivi. Forse è il caso di essere schematici: la politica è lì per operare sul reale, non sul suo racconto. Che poi essa debba far conoscere ai cittadini le sue azioni, ben comunicandole, è decisamente altra cosa. Prima si fa, poi si fa sapere.

È proprio in questa confusione che la ricerca di verità si fa affannosa e produce mostri. Il che è tanto più vero oggi, con la diffusione capillare e non più centralizzata dei mezzi di comunicazione. Una classe dirigente che adesso s’illuda di imbrogliare le carte e poter sfuggire a questa separazione non ha futuro. Trump stesso ha vinto proprio quando il resto della politica è stato visto come establishment e menzogna sistematica, ed egli ha potuto spacciare la sua aggressività per liberatorio svelamento, proponendo i suoi grotteschi alternative facts e i suoi believe me come forme di resistenza.

Non è un caso se negli Stati Uniti, all’indomani dell’elezione del nuovo presidente, il fake è stato preso di petto da un grande quotidiano. È il New York Times, oppostosi ai tormentoni di Trump con la prima campagna di brand della sua storia. Si tratta di una grande riflessione in pubblico proprio sulla verità, diventata nel frattempo una materia politica delle più controverse, da maneggiare con cura.

 

 

 

Ecco, ora la verità è importante più che mai, dice. E’ hard, è difficile da trovare e da praticare, ma vale la pena continuare a cercarla e raccontarla. Un giornale è lì per quello. E rivendica il suo ruolo.

 

 

La crociata nostrana contro le fake news va in direzione opposta. Mentre oltreoceano è la grande stampa a difendere la verità come valore democratico, in Italia è il potere politico a dichiarare guerra alle fonti d’informazione cui liberamente attingono i lettori. Confermandosi così tutt’altro che nuovo. Anzi, classicamente paternalistico. Eppure, per rispondere a quella ricerca di verità gli basterebbe smontare i fondali finti, dismettere la propaganda, accettare la realtà. Una verità troppo hard da accettare.

Giuseppe Mazza

Copywriter, dopo dieci anni in Saatchi&Saatchi e Lowe Pirella ha fondato Tita, la sua agenzia. Dirige Bill Magazine, la rivista italiana di studi sul linguaggio pubblicitario. Ha pubblicato "Bernbach pubblicitario umanista" e "Cose Vere Scritte Bene" (Franco Angeli). Ha scritto per Cuore, Comix, Smemoranda, Il Venerdì.