Il prossimo 9 novembre ricorrono trent’anni dalla caduta del muro di Berlino. L’avvio di un’altra storia, grazie a una convergenza, in particolare, tra Mikhail Gorbaciov e François Mitterrand, le cui possibili conseguenze Helmut Kohl seppe cogliere al volo. Facendo prevalere la politica, non la contabilità, fu riconosciuto un cambio alla pari tra marco orientale e occidentale. Dopo 40 anni di divisione, a seguito delle gravissime responsabilità della Germania nazista nella seconda guerra mondiale, i “vincitori”, a ovest e a est, accettarono di ritirarsi. Unica voce fuori dal coro, Giulio Andreotti, con la sua battuta: “Amo talmente la Germania che ne preferivo due”.
Neanche un anno più tardi, il 3 ottobre 1990, la riunificazione, con la creazione di cinque nuovi Länder, nel segno di uno sviluppo del sistema federale. A seguire, il 7 febbraio 1992, la firma del Trattato di Maastricht, entrato in vigore il 1° novembre 1993, non senza un legame tra unificazione tedesca e il ruolo preminente esercitato dalla Germania nella fase successiva.
Aggiungo, in vista delle imminenti elezioni europee, che gli orientamenti della cosiddetta tecnocrazia, euro compreso, sono un esito di questi presupposti politici. Per promuovere il necessario cambiamento, occorre consapevolezza e chiarezza, sapendo bene di cosa si sta parlando, avendo possibilmente il “fisico” per farlo, a partire dalle alleanze. Il contrario di quel che tuttora emerge dalle parti dell’attuale maggioranza di governo nel nostro Paese.
La storia va avanti, talvolta torna sui suoi passi, non sempre insegna qualcosa. Si presumeva che il muro fosse il frutto di una mentalità tardo-stalinista. Si scopre come esso sia diventato l’ossessione di un miliardario prestato alla Casa Bianca, Donald Trump, battistrada della nuova internazionale reazionaria. Nell’epoca dell’interconnessione, il muro considerato ancora come una soluzione, non già per quello che è, un clamoroso autoinganno, oggi più che mai al centro del dibattito internazionale, e, purtroppo, nella testa di tanti.
Quello di Berlino avrebbe dovuto essere eterno. Erich Honecker, poche settimane prima della sua caduta, dichiarava: “Resterà per un secolo”. Poi, il 18 ottobre, fu costretto a dimettersi, sostituito da Egon Krenz. Il nuovo governo, incalzato dalla pressione popolare, fu costretto a rimuovere il divieto di viaggiare in occidente. Günther Schabowski, ministro della Propaganda, ebbe il compito di darne notizia. Non senza una piccola perfidia della ragione. Durante la conferenza stampa, proprio un giornalista italiano, il corrispondente dell’agenzia Ansa a Berlino est, facendo il suo mestiere, pose una domanda: da quando le nuove regole di viaggio sarebbero entrate in vigore? Schabowski rispose: immediatamente. Appena si sparse la notizia, i cittadini tedesco-orientali corsero verso il muro, chiedendo di passare a ovest. I posti di blocco – dopo 28 anni dal 13 agosto 1961 – si aprirono.
Ecco, chiedendo scusa al lettore impaziente, questo anche per ricordare che il film Un valzer tra gli scaffali (titolo originale In den Gängen) non è ambientato durante gli anni della Germania est prima del crollo del muro, come è stato scritto, ma nel territorio dell’ex Germania est dopo la caduta del muro, nel Land della Sassonia, in un lembo di territorio tra Dresda e Lipsia. Lo si nota dalle auto, dai cellulari, pur in presenza dei tipici casermoni.
Un territorio inquieto. Ne ha scritto Paolo Valentino, sul Corsera, descrivendolo come luogo delle “biografie spezzate dei tedeschi dell’est”, “cittadini di seconda classe nella nuova Germania”, mentre, come ha ammesso Angela Merkel in un’intervista a Die Zeit, “forse il Paese non è così riconciliato come si pensava” e in molti tedeschi dei nuovi Länder “cresce un sentimento di frustrazione”. “Fuori l’Islam della sacra Germania”, “Difendiamo la patria tedesca dall’invasione araba” – questi gli slogan che circolano. Con torsione dal vecchio del socialismo reale al dilagante sovranismo.
La regia di Un valzer tra gli scaffali si deve ad un autore giovane e interessante, Thomas Stuber, nato a Lipsia il 31 marzo 1981. La sceneggiatura tratta da un racconto di Clemens Meyer, nato a Halle, il 3 ottobre 1977, residente a Lipsia. Entrambi Ossis, non Wessis, secondo la persistente distinzione tra tedeschi dell’est e dell’ovest. Protagonista Franz Rogowski, oltre che attore, ballerino e coreografo, vincitore di un German Film Award come il miglior attore protagonista; al suo fianco, Sandra Hüller, reduce da Vi presento Toni Erdmann.
Franz Rogowski ricorda Joaquin Phoenix, non solo per alcuni tratti fisici, e con lui il personaggio maschile di Her (Lei, 2013), il film di Spike Jonze: solitudine, malinconia, incomunicabilità, tra aspettativa e delusione. Un film altrettanto spiazzante, pur nel diverso scenario, nell’aderire al registro della più banale routine della vita quotidiana.
Le prime immagini di Un valzer tra gli scaffali lungo i corridoi di un ipermercato sulle note di Sul bel Danubio blu di Strauss. E’ la storia di Christian, preso in prova per imparare il mestiere di mulettista. Viene da un’altra vita, dopo aver pagato il suo debito con la giustizia. Ogni mattina, nel prendere servizio, compie il gesto di tirar giù le maniche del camice verde di lavoro per nascondere i tatuaggi che arrivano sino ai polsi. Poi al lavoro sino al tramonto. La sera il solito bus, atteso sul piazzale, prossimo all’autostrada, sotto le luci pubbliche, livide, spettrali. Al punto che, quando, a Natale, l’ipermercato deve chiudere, solo, nel suo appartementino disadorno, non vede l’ora che riapra. Coltivando la nostalghia per quella specie di comunità, non priva di gerarchie, ma dotata di una sua speciale bizzarria umana, di una sostanziale condivisione, sino agli scarti di cibo last minute.
Succede tutto nelle pause. Il momento della sigaretta con Bruno. Gli incontri davanti alla macchinetta del caffè con Marion. Il colloquio con il capo che gli comunica che è stato assunto. L’essenziale in quel che accade negli interstizi, tra le fessure degli scaffali, in bagno, presso un’uscita secondaria, nel negozietto del tabaccaio. Nessuna sfumatura di grigio in questi rapporti. E’ stato sottolineato quello tra Christian e Marion – insistendo sul giorno di San Valentino, siccome il film è uscito in Italia il 14 febbraio – dimenticando l’altro, non meno significativo, tra Christian e Bruno (con un convincente Peter Kurth), a conferma della cultura, molto tedesca, della Berufsaubildung, della formazione professionale.
Bruno è stato camionista, poi con la riunificazione la sua azienda è stata rilevata dall’ipermercato: e lui dai Tir si è sentito degradato a guidare i muletti. Accompagna Christian, lo aiuta, lo incoraggia sino al superamento della prova per il patentino. Gli spiega l’universo antropologico dell’ipermercato: “Noi andiamo d’accordo con i Dolciumi ma non con i Cibi in scatola, che invece si guardano male con i Surgelati e i Cibi gourmet”. Mentre Marion lo introduce nell’ambito, più sotterraneo, del Mare, sino in Siberia, dove, per poter rimanere senza congelarsi, occorrono pesanti giacconi invernali e gran berretti imbottiti con paraorecchie.
Nel mondo dell’inautentico, la verità dei rapporti. L’irraggiungibilità di Marion. La perdita di Bruno. Nella terra desolata, la felicità non semplicemente, come si ama ripetere, nelle piccole cose, piuttosto nella struggente attesa del presagio di un cambiamento, sfiorata, ovvero affidata in un silenzio espressivo come quello di Christian. Da uno dei caratteri del nostro tempo, l’anonimia, peculiarità non solo dell’est, piuttosto intima insidia della globalizzazione, Thomas Stuber trae un mondo parallelo, avvolto nella comunità di lavoro, nella forma icastica di una fabula malinconica, tratta dal sentimento, patito e conteso, della vita vissuta, sino a trasformare l’ovvio nel sorprendente, ovvero il movimento di un carrello elevatore nell’eco dell’Oceano.